Buona morte? (di Baldoni Fabio)

da Bbc.co.uk

da RaiNews24

da LucaCoscioni.it

Quando leggo questo tipo di notizie mi chiedo sempre cosa farei io se fossi nella medesima situazione; no, in realtà mi chiedo cosa sarebbe giusto fare, ed è qui che diventa impossibile dare un’unica risposta.
Il tema è complesso, a dir poco, e proprio per questo ho deciso di affrontarlo qui: perché vorrei che nascesse un confronto, un modo per comprendere le risposte di ognuno di voi a questo tipo di questione etica, morale e religiosa.

Per questo comincerò io…

Secondo me è giusto poter decidere quando è il momento di dire basta – e non parlo di crisi personali momentanee che portano a suicidi – ma di tutte quelle situazioni terminali che non hanno nessuna possibilità di cambiamento (non ho volutamente scritto miglioramento). Che siano malattie degenerative all’ultimo stadio (vedi il caso Welby) o diagnosi mediche definitive (il caso Englaro per intenderci) o malattie terminali che non sono più sopportate dal paziente (il caso in questione). Naturalmente i primi due casi sono situazioni molto diverse dalla notizia qui sopra riportata: si tratta di sospensioni di terapie, trattamenti e presidi sanitari che prolungano artificialmente un’esistenza destinata ad esaurirsi. Astenersi da quegli interventi, quando non fossero più efficaci o si rivelassero troppo dolorosi, significa restituire al ciclo naturale dell’esistenza la sua caducità e il suo procedere naturale verso la fine. Eutanasia è tutt’altra cosa: richiede, perché si realizzi, l’intervento attivo di un terzo che – su richiesta dell’interessato – determini la morte di chi ha scelto consapevolmente di non più vivere.
La casistica comunque è infinita, perché la reazione umana è fatta da mille e più sfaccettature – del protagonista se è in grado di intendere e di volere, dei suoi cari in caso contrario – e questo rende naturalmente ancor più difficile far rientrare ogni singola realtà all’interno di un’unica legge condivisa da tutti.

Condivisa da tutti…

Ecco secondo me il punto fondamentale, il motivo per cui scrivo questo articolo, perché sono consapevole che le mie parole – o le vostre – non sposteranno di molto le nostre convinzioni, qualunque esse siano; ma il confronto può aiutarci a capire le ragioni l’uno degli altri, e questo secondo me è necessario, anche se non le condivideremo.

Inutile nascondere che, essendo italiani, la risposta religiosa al problema in questione condiziona e ci condiziona: perché viviamo in uno stato laico di profonda matrice cattolica, in cui la Chiesa ha avuto ed ha un profondo potere su tutti noi, legislatori compresi. Quindi mi sembra giusto, per farvi capire meglio il mio punto di vista, dirvi che sono cattolico non praticante; cioè, non vado a messa però una preghiera so dirla, e la dico, senza vergogna. Forse è per questo che la penso così o forse, semplicemente, credo nella libertà personale – quello spazio dentro ognuno di noi che non prevarica ma protegge – più di quanto creda in Dio.

Penso che nonostante le difficoltà di legiferare in materia, lo Stato italiano debba fornire comunque strumenti (ad esempio il testamento biologico) per evitare che continuino a ripetersi casi come quelli citati in precedenza (Welby, Englaro) e tutti quelli che, per scelta o altro, non balzano agli onori/orrori della cronaca; in altri paesi è possibile avere una scelta, e credo che si possa conquistare tale libertà anche da noi.

Perché il mio intento non è convincervi che l’eutanasia è giusta per tutti, ma penso che si dovrebbe lasciare la possibilità, a chi la ritiene tale, di sceglierla come ultimo passo per se stesso o per un proprio caro; perché in fondo eutanasia, etimologicamente, vuol dire proprio questo: buona morte.

Vorrei chiudere – proprio per capire e, eventualmente, non condividere – riportandovi l’esempio, e le parole, di una persona che ha fatto questa scelta.

Ramόn Sampedro è nato il 5 gennaio del 1943 in un paesino della Galizia, in Spagna. Il 23 agosto del 1968 tuffandosi in mare ha un incidente che gli procura la frattura della settima vertebra cervicale, con conseguente paralisi totale. Da allora inizia un lungo e doloroso itinerario giuridico per ottenere dai tribunali spagnoli la possibilità di ricorrere all’eutanasia. Nel gennaio 1998, segretamente, grazie a una mano amica, è riuscito ad ottenere quello per cui stava lottando da trent’anni: la morte, suo sommo desiderio fin dal giorno in cui le conseguenze di quell’incidente lo avevano trasformato in “una testa viva in un corpo morto”.

Da Cartas desde el infierno, di Ramόn Sampedro Cameán:

(…) La qualità della vita consiste nell’essere piacevolmente adeguati, con una percezione di corpo e mente in armonia con tutto ciò a cui sono subordinati e soggetti i sentimenti personali. Quando non si sopravvive per il semplice timore della morte, è la morte l’unica alternativa razionale per liberare la vita dalla sofferenza. Quando non c’è più qualità della vita, quando il caos è completo, non c’è alternativa se non la disintegrazione della materia, per poter rinascere.
(…) Di solito non rispondo alle lettere di persone che sono contro l’eutanasia. Perché? Penso sia un dialogo assurdo. Entrare in questa polemica vuol dire iniziare un dialogo tra sordi che non porta da nessuna parte. Con la mia risposta voglio solo comunicare come vedo la vita e fin dove mi pare degna di essere vissuta, al di là di ogni pregiudizio di tipo religioso o di altri interessi che non siano quello personale. Allo Stato, alla religione e ad altri gruppi professionali che hanno il potere di impormi la loro autorità etica e morale, concedo solo il diritto di proibirmi qualsiasi atto che vada contro la libertà, la dignità o la vita di un’altra persona o di un altro gruppo di persone.
(…) Credo che per le caste dominanti l’eutanasia sia il dilemma che non vogliono o non sanno risolvere sia giuridicamente sia moralmente per un immaturo paternalismo a difesa della vita.
(…) Se facciamo parte del tutto, il tutto e il niente devono essere la stessa cosa e partecipare allo stesso abbraccio. Non ci sono equilibri grandi e piccoli, è tutto un’unica cosa. Quello psicologico dev’essere in relazione con tutto il resto ed è retto da queste tre leggi: piacere, dolore e paura. La paura è una specie di forza di gravità che mantiene l’equilibrio della vita con il suo abbraccio protettivo.
(…) Quando l’uomo perde l’equilibrio, per esempio spezzandosi il collo, la prima cosa che desidera è recuperarlo. Lo stesso accade a qualsiasi malattia durante il suo processo irreversibile verso la disintegrazione materiale del corpo, ovvero la morte. Il desiderio di recuperare l’equilibrio è irrealizzabile. Il nostro raziocinio lo conferma. Senza dubbio il desiderio è puro, non inganna: se non desideriamo una cosa, ovviamente desideriamo l’altra! E’ qui che la coscienza ha l’obbligo – più che il diritto – di decidere tra bene e male: è il libero arbitrio, la libertà di scelta. Visto che non è possibile tornare indietro, non resta che andare oltre, liberarsi dall’abbraccio con cui la paura ci lega e lasciarsi trascinare dal desiderio di non soffrire. La ragione, così, si impone all’istinto, al desiderio di tenerci disperatamente abbracciati a madre-vita che ci ama molto ma che non può liberarci dalla sofferenza che ci colpisce.
(…) Sai cosa chiedeva mia madre a dio? Che la vita che lei aveva generato con il suo amore – io – dio se la prendesse otto giorni prima della sua, oppure otto giorni dopo. Ovviamente mia madre lo chiedeva a dio, e io lo chiedo alla legge, ma a quanto pare sono tutt’e due sordi o ancor peggio: sono la stessa persona. Le madri dovrebbero fungere sempre da dee, perché sarebbero sempre giuste. Agirebbero sempre con amore.
(…) C’è gente – e molta, a quanto pare – che ha un modo molto strano di volermi bene; si dà il caso che, chi per un motivo, chi per l’altro, vogliano che regga ancora un po’ per giungere allo stesso risultato, a modo loro.
(…) Penso che amore, vita e morte siano un’unica cosa. Sono le leggi diverse che reggono il tutto.
(…) Non si può vivere solo ricordando la vita. Ci vuole un equilibrio tra corpo e mente. Se uno dei due viene a mancare, manca il progetto che la vita ha ideato. A che serve conservare intatti nella memoria i sentimenti, le fantasie e le passioni intrinseche a tutti gli esseri umani, se servono solo a tormentarsi con desideri che non potranno mai realizzarsi? Non è disperazione. E’ logica razionale. In queste condizioni l’idea della morte è più di un semplice desiderio di separarsi dalla vita. E’ il desiderio di porre fine a un’esistenza che non si accorda con le leggi della mia ragione. Non c’è bellezza possibile, perché non resta speranza. E quando alla vita non resta la bellezza, ci offre la morte, la poesia del sogno che cerca la ragione. Non c’è da girarci intorno. L’essere umano non accetta la sua mortalità perché la legge universale del timore della morte non glielo consente. Una persona può sopravvivere con l’aiuto dei propri simili. Può e dev’essere così, se richiede il loro aiuto. Ma quando uno non può sopravvivere con i propri mezzi e chiede aiuto agli altri, quelli devono dare l’aiuto che chiede lui, non quello che vogliono loro secondo i loro pregiudizi morali.
(…) Quando si dibatte sul diritto di una persona a porre fine alla propria vita, sempre compaiono i medici e ogni volta ripetono la stessa cosa irrazionale: noi siamo disposti a salvare vite. I medici non salvano la vita. Riparano infortuni o curano malattie, e sperano come logica conseguenza di prolungare ancora un po’ la vita. Ma quando non si può sistemare o curare nulla, la loro autorità morale e i loro giudizi di valore su come e quando una persona può porre fine alla propria vita, la loro influenza sulle decisioni giuridiche o sulla coscienza dei legislatori non dovrebbe avere più peso della mia – in questo caso – o di qualsiasi altro cittadino che reclami il diritto alla propria morte.
(…) La mia incapacità fisica mi provoca una sofferenza da cui non posso liberarmi. Ciò mi causa un’umiliazione che la mia idea della dignità non ammette. Chi mi provoca questa umiliazione? La vita, le circostanze. Non è dio, né la sua volontà, perché io non ci credo. Ma in una relazione di non so quale consulente o autorità sul tema dell’eutanasia, si afferma che non si può sapere quando una sofferenza è o non è sopportabile. Come possono giudicare dunque?
(…) Se qualcuno mi vuole bene, mi ama e mi rispetta, mi dia l’aiuto che gli chiedo, mi ami con il rispetto che gli domando. Se non è così, sarà una violazione dei miei principi, della mia personalità, della mia fede, del mio dio. Il meglio sarà ciò che io amo e comprendo. E la cosa migliore che tutti gli esseri umani comprendono è l’amore. L’amore è dare come danno il sole, l’acqua, il mare e l’aria. dio? La natura? Non chiedono niente in cambio, solo l’equilibrio. Non c’è errore o crimine più atroce che negare a una persona il diritto di porre fine alla propria vita per terminare una sofferenza incurabile. Gli stessi che lo proibiscono contemplano indifferenti milioni di esseri umani che muoiono di fame e di miseria, oppure li osservano mentre vengono armati – ognuno nella fazione a cui appartiene la sua religione – perché si massacrino in guerre ripugnanti a difesa del loro dio, della loro cultura, della loro fede. Quando i ragionamenti non ci convincono, che prevalga allora la nostra volontà di abbandonare la vita per curare le nostre sofferenze. E’ questo il modo autentico di dimostrare amore e rispetto per la vita e l’essere umano. Senza chiedere niente in cambio. Così come ci amano il sole, la terra, il mare, l’acqua e l’aria. In nome del loro dio.
(…) Ricorderò per sempre il giorno in cui mi sono sentito al culmine dell’impotenza: una sera mia madre – che è morta di pena per quello che mi era successo, anche se i medici le hanno diagnosticato un cancro – è caduta in terra in mezzo al corridoio. Anche allora eravamo da soli. Era svenuta e io, a due passi da lei, non potevo aiutarla. Ho pensato che fosse morta e mi è passata davanti unita alla zavorra di un corpo morto, l’immagine della mia testa, l’unica cosa che funzionava. A quel punto mi si è ripresentata di nuovo, rapida, l’immagine del passato. Ho ricordato la risata di mia madre, la voce chiara e profonda con cui mi parlava da piccolo, e gli occhi, i suoi occhi che mi chiedevano mille cose che la sua voce non si decideva a pronunciare, quando tornavo da un viaggio. Mi è tornato in mente quel movimento così triste che facevano le sue labbra quando mi aveva detto, insieme a mio padre: “Noi ti preferiamo così. Non vogliamo vederti morto”. E io so, perché me l’ha raccontato quando è uscita, che dopo il sorriso che le sbocciava in viso nella mia stanza, passava le giornate a piangere in tutti gli angoli della casa. “Forse anche stasera ha pianto” ricordo di aver pensato quel giorno, mentre lei era sdraiata inerme a terra. Ma questo non l’ho mai saputo. Quando ha ripreso conoscenza non gliel’ho chiesto e lei come sempre ha sigillato le labbra col silenzio. Di lì a pochi giorni se n’è andata dall’inferno che aveva sopportato per dodici anni.
(…) Ventisette anni dopo l’incidente faccio un bilancio del cammino percorso e non mi tornano i conti alla voce “felicità”. Non ho preso il sentiero che avrei desiderato. Il tempo è passato contro la mia volontà. Sono stato un tormento per le persone amate e al tempo stesso sono stato tormentato dal loro dolore. Manuel, l’uomo che mi aveva tolto la testa dall’acqua per chiedermi cosa mi era successo, aveva modificato con il suo gesto la meccanica universale del destino, che in quell’istante progettava la liberazione materiale del mio corpo. Io voglio andarmene dall’inferno, per cui mi chiedo: che senso ha il dolore assurdo contro la volontà dell’essere umano?

(…) Perché morire?
Perché tutti i viaggi hanno l’ora della partenza. E tutti i viaggiatori hanno il privilegio, e il diritto, di scegliere il giorno migliore per partire.

Perché morire?
Perché a volte il viaggio senza ritorno è il migliore percorso che la ragione ci possa indicare, per amore e rispetto della vita.

Per dare alla vita una morte degna.

3 risposte a “Buona morte? (di Baldoni Fabio)

  1. Su questo articolo avevo gia’ espresso i miei commenti a Baldo in privata sede, ma ne approffito per ripetermi: una ragionevolezza come quella espressa in questo articolo (i latini avrebbero parlato di “modus”, che corrisponde circa al concetto di misura) e’ encomiabile di per se’, ma ancora di piu’ perche’ rara…un argomento di questo tipo scatena furori ed ottusita’ di ogni genere.
    L’unica cosa su cui avrei da ridere e’ il punto di vista un po incompleto, e non faccio riferimento solo allo specifico di questo articolo ma alla generalita’ dei discorsi sul tema. So che puo’ suonare come una provocazione (e forse vuole anche esserlo)ma vi pongo una questione: si parla sempre di menti lucide in corpi inservibili oppure di organismi ancora viventi per puro meccanicismo, ma che dire del caso in cui un corpo ancora capace di vivere autonomamente ma che racchiude una mente ormai priva di quelle capacita’ intellettive e coscienziali che distinguono l’uomo dall’animale?
    Per spiegarmi meglio vi faccio un esempio che mi riguarda molto da vicino. Circa un anno e mezzo fa a mio zio e’ stata diagnosticata una malattia neurologica degenerativa (la malattia dei corpi di Lewy)che provoca formazioni proteiche anomale all’interno dei neuroni…in parole povere: l’effetto e’ un progressivo ed inarrestabile interrompersi delle sinassi neuronali, con conseguenze prima sull’aerea cognitiva e poi sull’intero sistema fisico.
    Per quello che ho potuto vedere, nella fase iniziale mio zio aveva solo qualche vuoto di memoria o diceva una frase sconnessa ogni tanto, poi si e’ passati ad un senso generale di smarrimento fino ad arrivare alla situazione attuale: di mio zio, inteso della sua personalita’ del suo essere della sua essenza, non e’ rimasto nulla; e’ rimasto solo un vecchio che non sa dove si trova, che giorno e’, che solo a volte riconosce le persone che gli stanno intorno. A questo si aggiunga che a tale degenerazione celebrale si accompagna un rapido deperimento fisico, aggravato dal progressivo intaccarsi del sistema nervoso….risultati: perdita di controllo del proprio corpo (e parlo proprio delle funzioni basilari, come il controllo della vescica e la deambulazione)e indebolimento del sistema immunitario. In pratica anche una banalissima influenza puo’ farti finire in terapia intensiva.
    Io quindi mi chiedo: una condizione del genere e’ degna del nome di vita? Ha senso non essere piu’ presenti nemmeno a se stessi ad avere davanti solo una lunga agonia, fatta di organi che collassano uno dopo l’altro? Non prendete le mie parole nel modo sbagliato, ma per me mio zio e’ morto molto tempo fa: quello che resta ora e’ solo un bozzolo, un involucro che ogni giorni che passa perde un piccolo pezzo di se’ e della sua autosufficienza.
    Anche in questo caso non si tratterebbe di buona morte restitutiva di una dignita’ ormai perduta?

  2. Non credo esista un modo semplice per valutare la questione senza cadere in chiacchiere scontate o generalizzazioni fuori luogo e proprio per questo ho trovato molto pregevole la delicatezza con cui hai affontato il tema.

    Per quanto mi riguarda, pur essendo non credente e anche parecchio cinico, mi trovo molto vicino alla tua posizione.
    La dignità è un diritto sancito dalla dichiarazione universale dei diritti umani ed ogni uomo deve poter scegliere di mantenerla anche nel momento in cui il beneficio di questo diritto equivale a porre fine alla propria vita.

  3. Non so, c’è qualche possibilità di non far nascere solo un dialogo fra sordi? Procedendo con il buon senso?
    Perchè non si può mandare avanti la morale o la religione se da queste dipende una vita.
    Non credo in dio, in realtà non so, e quindi non ci credo per comodità o per simpatia… Perchè non ha senso.
    Ma non ha poi molta importanza: ciò che c’è dopo, dopo la morte,è l’eterno irrisolvibile interrogativo dell’uomo… e il problema dell’eutanasia (la buona morte) non riguarda quello che viene dopo, ma la paura e l’attacamento alla vita, il principio intintivo della sopravvivenza prima di tutto. Bisogna capire che cos’è “vita”, e sicuramente non sarò io a farlo. Però senza spingersi troppo in là la vita è comunque un susseguirsi di esperienze, e per essere tale bisogna viverla. non sono banalità… Come si fa davanti a delle parole come quelle di Ramon Sampedro Camean a continuare a coprirsi di giustificazioni morali, etiche o religiose?? Secondo me c’è dentro un amore immenso.. ma proprio immenso.. così grande che non riesco a immaginare come possa essere avercelo dentro.
    Dice “non si può vivere solo ricordando la vita”. E uno Stato che interviene, che nega la libertà di scelta, che nega la dignità, più o meno esplicitamente, dipende da quanto si guarda in faccia la realtà… è uno Stato che compie una violenza, secondo me, che non ha il diritto di compiere. E se è una Chiesa a intromettersi, a sentenziare, a giudicare, così all’alto… è ancora peggio. Stare sempre in alto a volte fa male: rende la percezione della realtà un po’… come dire… distorta?
    Si tratta di situazioni che nessuno di noi può capire: come si può comprendere pienamente nella sua complessità e pesantezza una vita che non è più tale ma è solo un incedere forzato, doloroso, lento, sbagliato..
    Perchè non si può decidere di morire?
    La vita è la propria, accanirsi e opporsi è approffitarsene del proprio potere.. Perchè? sicuramente ci sarà anche chi lo fa in buona fede… ma in un paese civilizzato c’è ancora chi può decidere della vita o della morte di un altro?
    Possibile?
    Magari le cose sono più complicate di come le vedo io, sarà così… ma siceramente non mi dispiace non vedere tutto, fra interessi, pregiudizi, preconcetti… Non so cosa sia meglio, ma preferisco rimanere impressionata, indignarmi, ed evitaare di impuntarmi se si tratta di cose che sono al li dà della mia portata. Come per esempio la vita e la morte…
    Cerco piuttosto di capire… E Ramon Sampedro è un naufrago, e si sa che chi rischia di annegare (e poi annega) può imparare in un attimo quello che un altro non potrebbe imparare in una vita intera.
    Non capisco come possa essere così comprensivo.. ma è la sua vita!! Forse ha capito che mettere un muro contro un altro non porta a nessuna soluzione…

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