Critica della ragion antagonista (di Pietro Terzi)

In occasione dell’occupazione, conclusa, dell’ex torrefazione Molinari e dell’attuale in corso del Nuovo Cinema Scala da parte del Collettivo Autonomo Studentesco, ritengo sia doveroso fornire un punto di vista sul progetto Guernica a partire da una posizione che non sia sommaria tanto nel difendere quanto nel criticare, siccome soprattutto le critiche fino ad ora non hanno mai colto il nocciolo della questione, che ha ben altra portata rispetto alle dichiarazioni degli esponenti del centrodestra, Ghelfi e Leoni fra i tanti. Io personalmente mi sono reso inviso a molti del C.A.S. – e colgo qui l’occasione per precisare che non si tratta di anarchici, a differenza di quanto i giornali hanno spesso scritto – per via delle mie posizioni ostinatamente contro il Guernica, ricevendo come risposta che non ho capito nulla dello spirito della cosa. Forse è vero, ma mi sono sforzato di guardare oltre lo spirito e quello che ho notato valga come un’interpretazione fra le tante.

Ho potuto constatare direttamente la scarsa diffusione di una capacità di problematizzare la realtà che una vera mente antagonista dovrebbe possedere e la diffusione per converso di un certo facile dogmatismo. D’altronde già Adorno ed Horkheimer, due padri della critica alla società capitalista e massificata, hanno illustrato come tutte le rivoluzioni, culturali e non,  intenzionate a migliorare lo stato di cose di fatto finiscano per produrre mitologia, intolleranza, contraddicendo nei fatti i nobili proposti iniziali. E questa non è speculazione fine a se stessa, non è disimpegno né tantomeno pigrizia, come spesso la si vuole fare passare. È un insegnamento che viene dalla Storia, che ci può aiutare nell’affrontare le tante contrapposizioni sorte a partire dall’età moderna: si vedano le teste tagliate del Terrore, il dogmatismo scientifico seguito alla Rivoluzione industriale o le purghe staliniane che finirono per fagocitare anche chi, come Trotsky, non faceva sconti sul raggiungimento dell’obiettivo: “O con noi o fuori dalla Storia”.

Questo per dire che la rivoluzione deve essere prima di tutto affare del pensiero, e che non si dà uno stravolgimento del sistema con i mezzi messi a disposizione del sistema stesso, quindi sostituendo potere a potere. Tutte le rivoluzioni conosciute nel Novecento occidentale sono avvenute all’interno del sistema e non hanno fatto altro che perpetrarlo. Si tratta, prima di licenziare una rivoluzione, di indire in se stessi una rivolta.

O ancora: rivoluzione significa partire da un punto, compiere un giro completo e lì tornare – in questo senso una rivoluzione è un movimento conservatore. Ciò di cui si ha bisogno ora è piuttosto una rivolta, in cui i termini del ragionamento, quindi la posizione stessa, vengono stravolti, offrono un’altra faccia. Rivolta significa dunque amare un uomo che non esiste ancora, che noi non siamo, un tipo di uomo che ha smesso di scendere a patti con ideologie, limitandosi a cambiare colore all’ingiustizia, e che ribalta la mentalità, la quale è presupposto di ogni cambiamento.

Per spiegare meglio questa differenza vorrei rifarmi al significato del termine jihad, che per i Musulmani è duplice: significa tanto uno sforzo interiore per emendare l’io dalle pulsioni, dalle facili credenze, quanto un impegno militare, esteriore. Queste due mobilitazioni sono l’una il presupposto dell’altra. Ugualmente, ciò che spetta a chiunque voglia porsi-contro è liberare se stesso dalle catene dogmatiche di ogni facile soluzione, di ogni risposta che sembri cosa limpida e chiara e semplice.

Per questi motivi, e per altri, non condivido la critica culturale che lo Spazio Guernica incarna, in quanto praticata con stilemi e preconcetti tipici di una sottocultura asservita al sistema, che già per essa ha predisposto tutto, dai vestiti alle bombolette spray da usare sulle lenzuola della madre agli slogan di utilizzare. Anche lo spirito critico millantato nelle note pubblicate sul profilo facebook dello Spazio Guernica si dimostra del tutto inautentico ed emerge il tentativo di forzare nella sintesi sociale realtà che non meritano di essere così banalizzate, prime fra tutte le proteste studentesche dei giorni scorsi. Nell’antagonismo esasperato io sento fin nelle ossa la catena di montaggio che rovina l’opinione pubblica del nostro paese e mi convinco sempre più che non sia questa la soluzione.

Per quanto il Guernica sia un’ipotesi di associazionismo, una marea che finalmente a Modena ha preso a salire e scendere, la modalità in cui si è manifestata, e cioè l’occupazione, non la ritengo accettabile; ritengo ammissibili atti di questo genere solo in casi estremi, quando la libertà individuale presente e futura è soffocata oltre la soglia di sopportazione, ma non di certo per motivazioni come la richiesta di uno spazio sociale, che per quanto giusta ritengo malamente perorata – soprattutto se rivendicata nel nome di Modena, secondo la più becera delle prassi propagandistiche.

Il fatto è che non sempre è possibile guardare il caso particolare, bisogna vedere talvolta le conseguenze del proprio comportamento qualora venisse utilizzato universalmente. Il primo scopo di chi vive all’interno di un sistema democratico, oggigiorno, è quello di rendere questo il più armonico possibile, perché non è possibile cambiarlo, in quanto, essendo più grande della somma delle parti,  sfugge ad ogni intervento localizzato. Il primo fine di qualsivoglia movimento deve quindi essere quello di ridurre i conflitti evitando di fare della propria esigenza l’esigenza di ognuno.

Faccio presente un dato: se dal 2000 l’uso di psicofarmaci e antidepressivi in Italia è aumentato del 310%, ciò è da imputarsi non più, come un tempo, ai conflitti tra pulsioni e norme sociali, ma al senso di inadeguatezza materiale e culturale che questo sistema impone. La depressione e i suoi sintomi, attacchi di panico in primis, sono in costante aumento. Può sembrare bizzarro fare riferimento a dati di questo tipo per affrontare il tema di cui si sta scrivendo, ma è fin troppo comune la prassi di piallare l’individuo sullo sfondo della società, senza tenere conto di come le condizioni materiali e culturali influenzino la vita vissuta.

Lo scopo di questa digressione è quello di sottolineare come tanto il metalmeccanico quanto il poliziotto che lo deve tamponare in manifestazione sono dalla stessa parte della barricata, e ugualmente il “padrone” e l’operaio. Pur esistendo spaventosi dislivelli di reddito, non sussistono più divisioni, come un tempo, tra proletariato e borghesia, non esistono più le classi. Oggigiorno siamo tutti borghesi, perché la borghesia è diventata pensiero calcolante, razionale, bisogno rinchiudere la realtà nelle sbarre della propria esigenza – e chi può dirsi estraneo a questa mentalità? Ma la realtà non si presta ad essere rinchiusa entro interpretazioni di comodo, e se esiste una nevrosi “postmoderna” questa è proprio dovuta all’essere noi tutti borghesi in tempi in cui l’antropologia borghese ha fallito, tempi in cui ogni cosa muta prima che sia possibile inquadrarla nella nostra personale visione del mondo.  Sopra noi tutti ci sono un mercato e un pensiero operatorio che soffocano le nostre radici dal profondo. Finché questo non verrà compreso, siamo destinati come nella pittura di Goya a fare la fine dei due uomini nelle sabbie mobili, che invece di aiutarsi ad uscire, si prendono a bastonate.

In questo contesto, lo scontro sociale è ciò che propriamente oggi deve essere evitato. Se si deve dare un’unione, questa deve essere il più universale possibile, deve rinunciare agli scompartimenti stagni. Per fare ciò bisogna rifondare l’idea stessa di diversità. La società capitalista e globalizzata vuole, appunto, globalizzare, che non significa rendere tutto omogeneo, significa rendere ogni particolarità superflua, interscambiabile, vana. Dobbiamo ripensare una diversità autentica, che sia frutto della conquista individuale e non collettiva, perché le discriminazioni, le violenze, i pregiudizi si diffondono quando la diversità viene intesa a livello comunitario.

Il primo passo è quindi quello di porre in questione continuamente ciò che si agita dentro di noi, le nostre credenze e speranze, dacché null’altro ci muove nella vita. Il che si traduce nel migliorare la qualità delle proprie domande, piuttosto che affrettarsi nella ricerca di risposte, come appunto il pensiero borghese vuole.

Ma tornando alla questione da cui siamo partiti, proprio in virtù di una necessaria aggregazione che incentivi l’unione e l’esercizio del pensiero critico di cui si è parlato fino ad ora, sono totalmente d’accordo sull’esigenza di uno spazio per i giovani. Questo, tuttavia, non significa che si possano giustificare metodi come l’occupazione. Si potrà dire che per le proprie idee si debba talvolta forzare la mano. Ragionamento corretto, ma anche qui il fascio non può contenere tutta l’erba. Il Comune che presta ascolto solo con le scalinate occupate ricorda molto la madre che dice di “sì” al bambino per sfinimento. E non c’è nulla di nobile in questo, anzi, significa aver fallito nel dare valore alle proprie idee. Significa che ciò in cui si crede non è stato recepito e non necessariamente che dall’altra parte la gente sia sorda.  

Che poi il Guernica abbia potuto vantare una grande affluenza, un notevole consenso di giovani, lo so bene, sono stato presente più volte.  Ma è erroneo fondarsi sui risultati. Tartaglia che spacca i denti a Berlusconi ha avuto il consenso di molti, ma si può dire che sia stato un mezzo giusto? No, al contrario, ha fatto solo un favore colui che cercava di ledere.

La questione è che ogni conquista va ottenuta nella legalità. Siccome si è in democrazia, ci sono sempre le possibilità di manifestare le proprie ragioni senza farne la ragione – e tutti coloro che sono così veloci nel criticare la democrazia sono i primi che frignano se viene leso uno dei loro diritti.

Pare inoltre un paradosso chiedere soldi per sostenere le spese legali e lamentarsi dei costi degli spazi per le associazioni – e anche qui ci sarebbe da farsi domande sull’uso di questi soldi, se, come in tutti i movimenti, vi è un élite che trae profitto e dei novizi che, resi ciechi dall’esaltazione, ignorano la gerarchia di potere esistente.

Siccome quindi detesto i piagnistei, rinunciare a certi slogan che già di per loro sottintendono un clima di conflitto avrebbe di certo reso l’opera di dialogo tra C.A.S. e Comune più semplice. Non ci si può piangere addosso senza sottoporre a vaglio critico ciò che si è fatto.

Invito, in conclusione, a non accomodare queste parole – che sembrano di critica distruttiva, in realtà contengono germi utilissimi e, credo, edificanti per chi voglia coglierli – ai propri bisogni intellettuali e ideologici, ma a considerarle per quello che sono. A mettersi in discussione sulla base di esse. Perché per essere contro, per creare un’alternativa, è necessario de-situarsi, uscire dalla propria posizione, rinunciare a dogmatismi che sono propri del sistema, fare critica (che in greco antico voleva dire analisi, giudizio) a 360°. Essere quindi pronti, talvolta, a rinunciare anche a se stessi.

14 risposte a “Critica della ragion antagonista (di Pietro Terzi)

  1. Caro Pietro,
    Un articolo molto stimolante, il tuo: merita un commento, che spero tu e gli altri lettori giudichiate all’altezza.

    “migliorare la qualità delle proprie domande, piuttosto che affrettarsi nella ricerca di risposte, come appunto il pensiero borghese vuole”.

    Quanto sostieni qui, lo sottoscrivo in pieno nella teoria. Se ho capito bene, stai dicendo: voi che cercate lo scontro (ma siete poi figli di borghesi), voi che okkupate con gli slogan di ideologia, voi che radicalizzate lo scontro e date risposte a domande banali, etc. etc. dovreste forse cercare di costruire dentro di voi un percorso di pensiero e coscienza critica, lasciando perdere ideologie, preconcetti e slogan preconfezionati, i “dogmatismi”.

    Pasolini era su una posizione simile già 40 anni fa
    “Avete facce di figli di papà.
    Buona razza non mente.
    Avete lo stesso occhio cattivo.
    Siete paurosi, incerti, disperati
    (benissimo) ma sapete anche come essere
    prepotenti, ricattatori e sicuri:
    prerogative piccoloborghesi, amici. …”

    http://www.corriere.it/speciali/pasolini/poesia.html

    Gli intellettuali critici (tendenzialmente di sinistra), quelli con la mente elastica, senza preconcetti, come Pasolini e come te in questo frangente Pietro, secondo me scivolanosistematicamente sulla banana della filosofia da liceo classico.

    Il Guernica ora, il Libera una volta contro piste e schifezze edilizie varie, gli studenti che manifestano e che occupano, gli operai, gli aquilani, quelli di Terzigno sono tutte espressioni della democrazia, e bisogna accettarle anche se non si è d’accordo. Sono con te Pietro e con Pasolini nel pensare che molti cosiddetti anarchici o leninisti o studenti oggi manifestanti utilizzino il metodo borghese della risposta facile a domande poco complesse, ma penso che tu non consideri il CUORE che loro mettono nella protesta. E’ vero forse è troppo, a volte è più
    pancia che cuore. A volte pur avendo manifestato centinaia di volte e non essendo stati ascoltati e rappresentati, la rabbia si impadronisce del cuore. E’ un attimo.

    Però tornando agli intellettuali italiani, secondo me è proprio qui l’errore che fate: fate i critici ma siete i primi a parlare ancora di borghesia (si vede che la conoscete bene) e proletariato. Gli altri parlano di precariato, generazione P., sono già molto più avanti: altro che proletariato! la prole oggi è un lusso!!!

    Non mi addentro poi sull’uso del linguaggio intellettuale, che è tutto meno che uno strumento che vuole unire. Se c’è una cosa che proprio è evidente a tutti, è che il linguaggio degli intellettuali vuole dividere, vuole sottolineare la distanza che li separa dalla masse di barbagianni. Vuole dividere chi sa da chi non sa, chi ha studiato da chi non ha studiato (citando Scuole di Francoforte ad libitum). Gli intellettuali sono i primi a essere rinchiusi in categorie, perché proprio l’intelletto ragiona per categorie, il cuore no di certo.
    Allora io dico, intellettuali critici: ma perché anziché fare la critica della critica ed evocare Trotsky o Adorno non occupate tempo a guidare la rivolta? Sono secoli che vi aspettiamo (più o meno dalla rivoluzione francese 😉
    Capisco che abbiate occupato il vostro prezioso tempo ad elaborare domande di qualità. Solo che i tempi cambiano e con essi anche le domande. Per questo molti intellettuali rispondono oggi a domande su borghesia e proletariato.

    Siamo anche noi gente normale assetati di domande di qualità…solo che non abbiamo tanto tempo per aspettare che tutti ci arrivino da soli, come vorresti tu Pietro. C’abbiamo una vita sola. Facciamo che ci date l’aiuto da casa?

    Bellissimo articolo, mi perdonerai il finale ironico…

    Con tanta stima

    Claudio

  2. Ciao Peter, sono Marci, mi piacerebbe soffermarmi con te a discutere ogni paragrafo di questo tuo interessante scritto, ma per tempistica, per ora, mi limito a citarne un pezzo a cui sento il bisogno di dare una risposta, o meglio, da cui mi sorge spontaneo farti una critica. Confido che in futuro avremo modo di discutere l’argomento in maniera più approfondita.

    “La questione è che ogni conquista va ottenuta nella legalità. Siccome si è in democrazia, ci sono sempre le possibilità di manifestare le proprie ragioni”

    Mi ha in un certo senso stupito questo passaggio. A mio giudizio, compi nel testo delle ottime e fondate accuse al sistema che influenza la nostra società nei più biechi modi, e con le più nefaste conseguenze. Ma non è proprio la democrazia attualmente presente sul nostro e su molti altri Stati, che permette a questi meccanismi di riprodursi e di ingigantirsi? E pensi veramente che i metodi di manifestazione della libertà di pensiero che la democrazia ci offre (o impone??) siano sufficienti per rappresentare efficacemente la richiesta di rappresentatività di un popolo? Referendum e petizioni popolari sono strumenti con un soddisfacente costo-opportunità? O sono più una perdita di tempo, per chi, illuso da chissà quale rosea prospettiva, si impegna per anni a raccogliere rispettivamente 500.000 o 50.000 (sempre tante sono) firme? Se questo è ciò che volevi intendere, riferendoti all’obiettivo di raggiungere le cose restando nella legalità, pensa invece, se posso suggerirti, se non sono questi semplici mezzi di incanalamento dello scontento, che finiscono in realtà in vicoli ciechi, andando a sbattere contro muri piazzati da chi al potere grazie alla democrazia è arrivato, e da chi al potere grazie alla democrazia può restare.

  3. @Claudio: ma infatti anche chi critica è in una categoria, nessuno pensa che sia così, ma non perdiamoci in giochini logici del tipo: la frase “non esiste una verità” non è forse un’affermazione di verità? Il problema è esserne poi consapevoli, ed io credo, senza alcuna presunta superiorità beninteso (no perché qui bisogna difendersi di continuo dall’accusa), che pochi lo siano. Pasolini io l’ho sempre trovato molto “macellaio”, ma aveva già intuito una cosa, che le rivoluzioni ora come ora rischiano di cambiare colore all’ingiustizia se prima non vi è un cambio di mentalità.
    La scuola di Francoforte l’ho citata per non fare quello che rende onore al merito, non mi piace appropriarmi di ragionamenti altrui, questo per una deontologia interiore. Trotsky per fare un esempio storico altrimenti sembrava che io tirassi fuori le cose dal nulla. Insomma, smettiamola con la paura del linguaggio complesso, con la fobia dell’intellettuale, perché anche questa è grandefratellizzazione, vedi Aldo Busi all’Isola dei Famosi; non è un articolo con termini strani, con sintassi difficile, solo i concetti forse, a volte, lo sono, ma gli argomenti sono complessi, non pensiate che Sartre quando scriveva i manifesti per gli operai scrivesse delle liste della spesa. Poi io non sono d’accordo sul fatto che gli intellettuali guidino le masse, perché l’intellettuale (che poi io non sono) può dare delle dritte ma è contro la sua natura prendere la leadership e i risultati sarebbero troppo dannosi, basta essere persone di buon senso e d’azione.
    Per quanto riguarda la borghesia, solo perché se ne parla non significa che l’idea marxiana di borghesia. Anzi, io nel dire che siamo tutti borghesi l’ho proprio voluta liquidare come categoria per dire che non ci sono più opposizioni sociali ma solo economiche e che quindi appunto i problemi sono altri: precariato, disoccupazione, rateizzazione delle liquidazioni etc. – laddove (ricordiamoci che l’articolo prendo poi spunto dal guernica) si vuole invece continuare a vedere delle lotte di classe o perlomeno delle trincee contrapposte.

    @Marci: sono d’accordo, ma bisogna fare dei distinguo. Nel senso: sì, io penso che lo Stato, non so se consapevolmente o no, crei mezzi di sfogo per il popolo, altrimenti non si spiegherebbe perché il monopolio delle sigarette e delle slot machine quando poi c’è condanna della droga. Allora si può pensare che i referendum sia un placebo. Io potrei essere d’accordo in questo senso. Però l’errore che si fa è sempre quello di trascurare i fini e guardare sempre ai mezzi. Non sono uno per la legalità a tutti i costi, ma trovo ci sia differenza tra il lanciare delle uova al senato perché fondi di cui l’uni avrebbe bisogno vanno in spese militari o in scuole private e l’occupare uno stabile perché manca uno spazio sociale. Io sono favorevole poi alle occupazioni dell’università, così come all’occupazione dei monumenti. Il problema è che bisogna che ci siano gli estremi per queste cose (poi anche lì è difficile capire quando). Il fatto è che la legalità è un valore, ed il rischio è quello di pensare che ci sia solo quando ne abbiamo bisogno noi. E soprattutto di dimenticarci che la propria libertà finisce dove inizia quella degli altri, che è un’idea fondamentale.
    Poi, sulla democrazia il discorso è complesso. Io credo che non sia facile come nel V aC farsi sentire, perché lì erano tre stronzi. Ma io la possibilità, soprattutto in realtà locali ci sia di far sentire la propria voce. Perché, a rigor di logica, se uno dice: “c’è uno stabile di cui nessuno se ne fa niente occupiamolo noi giovani, andiamoci a dormire”, allora io vado a casa loro, tanto dormono là, e occupo, siccome io in casa mia ci sto male.

  4. Dopo la lettura ho pensato: “Oh finalmente!”

    Poi l’ho riletto a pezzi e mi sono fermata quando alla fine dove scrivi: “a non accomodare queste parole – che sembrano di critica distruttiva, in realtà contengono germi utilissimi e, credo, edificanti per chi voglia coglierli – ai propri bisogni intellettuali e ideologici, ma a considerarle per quello che sono. A mettersi in discussione sulla base di esse. ”
    E mi sono chiesta, com’è possibile mettersi in discussione sulla base di parole che tendono ad escludere buona parte della popolazione per complessità di scrittura?
    Sia chiaro, è solo un’osservazione di forma. Io credo nella comunicazione come sistema aperto, e mi spiego meglio: se io e te ci mettessimo a tavolino a parlare della Scuola di Francoforte o del carattere epistemologico del Circolo di Vienna collegandolo a quel meraviglioso passaggio di fine secolo che la città austriaca ha vissuto, ne parleremmo io e te cioè persone che già conoscono l’argomento e che difficilmente apprenderebbero qualcosa di nuovo. Ma se io, te e altre dieci persone di provenienza culturale differente fossimo a quel tavolino e parlassimo dello stesso argomento parafrasandolo e utilizzando un linguaggio semplice, allora quelle dieci persone comprenderebbero la questione e probabilmente potrebbero rifletterci sopra.
    Non credo che il “linguaggio complesso” faccia paura, credo solo che sia inutile utilizzarlo quando si tenta di parlare ad una schiera di anime che evidentemente – e per fortuna – non provengono dallo stesso ambiente culturale.

  5. La cosa divertente è che voi pensate che sia un linguaggio complesso. Quando forse sono i concetti ad esserlo. E allora lì bisogna sforzarsi di capire. Siccome io vi invito a sforzarvi di, e non vi propongo ricette già pronte, e questo mi dice che ho fallito.

  6. Mi aspettavo sarebbe emersa la questione della forma conoscendo sia Pietro sia Claudio. L’intervento di Giulia mi sembra chiarificante: bisogna sapere a chi si sta parlando. Una risposta complessa non esige necessariamente un linguaggio complesso, a meno che non si discuta all’interno di una comunità scientifica. Sicuramente è un esercizio difficile quello di parlare semplicemente di cose complesse, attraverso il quale sono passato anche io senza essere arrivato ancora a risultati soddisfacenti, ma è un esercizio utile e interessante.

    Detto questo credo che l’articolo di Pietro sia molto interessante nei contenuti e meriti di andare oltre le questioni di forma, per quanto queste siano importanti.

    Prima di tutto vorrei ricordare che il C.A.S. o Guernica, insomma quel filone aggregativo che mantiene una certa continuità nella storia modenese, è, a mio parere, una delle poche forze politiche che è riuscita nell’ultimo anno a fare politica attivamente. Con questo intendo dire che il Guernica fa politica sul territorio, sforzandosi di cogliere i problemi nella realtà del tessuto cittadino: penso ai temi della Scuola, al tema della Casa, e degli Spazi Sociali. E questo è un grande merito perché hanno dimostrato con forze esigue e senza poteri forti alle spalle (almeno credo) di poter essere molto più presenti politicamente di tante altre forze che dispongono di più mezzi, ma che preferiscono agire nei Palazzi proteggendosi dal contatto con i cittadini, o mediandolo in modo consistente.
    Detto questo sono d’accordo con Pietro sul fatto che il Guernica corra il rischio di richiamarsi a delle ideologie in modo anacronisco a volte e che rischi di elaborare risposte semplici a problemi complessi. Perché ciò non accada bisogna riuscire a mantenere aperto un dialogo con le realtà diverse dalla propria, quindi nella pratica bisogna confrontarsi con gli studenti non attivisti, con i lavoratori e con le altre forze politiche. L’antogonismo può essere positivo nella misura in cui ti permette di rifiutare e contrastare quelle logiche negative che uccidono la politica (come il clientelismo), ma dall’altra parte può nuocere nel momento in cui diventa chiusura eccessiva verso la realtà e semplificazione. Non è facile mantenere l’equilibrio.
    Poi si potrebbe aprire un discorso sul conflitto sociale. Siamo tutti borghesi. Sono d’accordo quando dici che la cultura borghese è stata determinante nell’influenzare il comportamento e gli stili di vita di una larga parte della popolazione. Però questo discorso poteva andare bene fino a quando vivevamo nel tempo delle “vacche grasse” quando le famiglie avevano un forte potere d’acquisto e l’accesso alla conoscenza o al lavoro come strumenti di mobilità sociale erano realtà esistenti. Oggi è ancora possibile quella mobilità sociale o chi nasce in condizioni disagiate farà più fatica a crescere nella scala sociale? Esistono gruppi di persone che in barba alla democrazia difendono il potere economico e politico conquistato escludendo parte della popolazione anche in modo illegale?
    Allora mi chiedo se in un contesto del genere siamo sicuri che il conflitto sociale come strumento di lotta sia qualcosa da abbandonare per determinate parti della popolazione (possiamo definirle classi?), in uno Stato con delle istituzioni deboli e poteri forti che pesano sempre di più?
    Penso spesso a una certa sinistra che ha dentro di sè imprenditori e studenti universitari. Possono stare insieme? Sì, se l’imprenditore si mette a disposizione delle altre categorie, se paga i lavoratori con giuste retribuzioni e se paga le tasse. No, se guarda ai suoi “compagni” di partito socialmente meno influenti in modo partenalista e con la convinzione di contare di più in virtù del suo maggiore peso economico e culturale.

  7. Ma infatti io dicevo che la gente, indipendentemente dal reddito, ha un tipo di mentalità borghese, ma i tempi ormai sono troppo complessi e quindi c’è sofferenza. è per questo motivo che ho citato anche i dati del consumo di psicofarmaci. C’è senso di inadeguatezza, c’è vedere qualcosa che non si può raggiungere.
    Per quanto riguarda il conflitto sociale io credo che non sia più attuale perché il nemico da combattere ora non è tanto una persona in carne ed ossa ma un certo tipo di mentalità, che riguarda tanto l’imprenditore che fa il furbo quanto l’addetto alla manutenzione di Pompei che lascia andare tutto in merda. Non si tratta più di prendersela con la polizia o l’imprenditore, ma di cercare con prudenza di epurare chi perpetra i propri interessi facendo colazione con la cosa pubblica.

    • Sì, ma questa mentalità è incarnata da persone precise che in Italia sono anche abbastanza note e riconoscibili, e rappresentano una vera e propria cultura. Che poi siano imprenditori o subalterni questo non fa differenza, sono d’accordo con te. La differenza non si basa più solo su un dato economico o sociale, ma sulla base dello stile di vita a cui aderisci. Quindi il conflitto sociale secondo ciò che ho detto prima credo che sia ancora attuale, visto che esiste una violenza dall’alto che si ripete sistematicamente per mano di questa cultura in declino che schiaccia il paese.

  8. Sì ma in questo caso non credo si possa parlare di conflitto sociale, perché questo avviene dentro la società, mentre per come la vedo io si tratta di resistere a chi vuole uscire dalla società e rappresentare un’eccezione.

  9. Forse è passato troppo tempo da quando l’articolo è stato postato e dai commenti che si sono susseguiti; ma non mi è stato possibile resistere dal tentativo di partecipare alla discussione.

    E’ interessante notare il fatto che l’articolo che scatena questa stimolante discussione si conclude invitando ad essere pronti a rinunciare anche a sé stessi. Allora l’obiezione è: ma la critica non è innanzi tutto una delle forme più alte di autoaffermazione? Dove è che ci si dimentica di sé stessi durante questo esercizio?

    Allora non intendo dimenticarmi di me, visto che sono uno dei partecipanti al progetto Guernica, come parte del Collettivo Autonomo Modenese, quindi altro rispetto al Cas, il collettivo citato nella vostra discussione: però certamente condivido l’esperienza del Guernica con il Cas e la mia è un’opinione di parte.

    Una cosa che mi sembra molto interessante, è la domanda sulla possibile esistenza di una élite che si avvantaggi delle entrate del Guernica, a scapito degli ignari che fruiscono dello spazio senza porsi domande.

    Risponderò alla questione, ma seguendo un percorso rispetto al quale faccio la seguente premessa: sono profondamente convinto che sia l’essere sociale a fare la coscienza, non il contrario. Spiego: sono le esperienze concrete che danno forma alle nostre idee. Allora solo la costruzione di un luogo che si ponga come “estraneo” alla normalità della nostra società, può produrre modalità di pensiero che tendano a fuoriuscire dalla “norma”, da quell’essere borghesi che tanto sembra infastidire.

    Solo che questo diventa vero nella misura in cui, nel dare vita ad uno spazio occupato e ad una socialità vivace che tende al protagonismo, si coglie una necessità vera di esseri umani concreti.

    L’ipotesi del Guernica sarebbe nulla se non ci fossero quelle centinaia di frequentatori di cui si parla nella riflessione comune, per il banale motivo che l’esigenza che si “millanta” di cogliere quando si dice che il Guernica è un’esigenza della città, sarebbe fondata sul nulla.

    Tuttavia è più preciso dire che è un’esigenza “di parte”, di un settore sociale che nel Guernica si riconosce.

    Una domanda che vi propongo è: perchè si dovrebbe frequentare un luogo spesso freddo, qualche volta scomodo, in cui spesso sei invitato o invitata a dare una mano, in cui ti si chiede di rispettare dei comportamenti qualitativi di convivenza quando ci sono luoghi bellissimi, caldi, comodi, pieni di iniziative interessanti e nei quali nessuno ti chiede nulla, a parte pagare?

    Esiste forse una porzione di questa città che si trova meglio a frequentare un luogo in cui conta poco la possibilità di spesa che hai, mentre conta molto l’essere umano che sei?

    La mia impressione è che questa esigenza di qualità nei rapporti che si vive necessariamente nello spazio sociale, nasca anche da un bisogno concreto, da una risposta che un giovane trova alla mancanza costante di denaro che non è condizione di tutti in città, ma di qualcuna e qualcuno sicuramente. Questo fatto, questa differenza di condizione materiale però, introduce di nuovo una distinzione di classe all’interno della città: forse è ancora vero che c’è chi è figlio o figlia di una famiglia operaia, che magari si trova con un padre in cassa integrazione e respira quel senso di rabbia, frustrazione e disperazione che consegue da una nuova precarietà dell’esistenza e chi è figlia o figlio di un padrone che in quella condizione ha fatto finire qualcun altro.

    Che piaccia o no, questo è ancora vero.

    Allora è molto diverso dire che la cultura borghese è la cultura dominante (faccio notare che anche molti teorici del movimento operaio sostenevano che la cultura delle classi dominanti è la cultura dominante in una certa fase storica, prima che intervenga una crisi di sistema che necessita di nuovi orizzonti di valore), dal sostenere che siamo tutti borghesi. Nella pratica della vita non lo siamo.

    Mai come in questo momento storico il conflitto capitale-lavoro viene riproposto in modo così esplicito come dall’esperienza del voto in Fiat, prima a Pomigliano, poi a Mirafiori.

    Possiamo poi aggiungere che il capitale finanziario sta portando questo sistema all’assurdo, ma parlare di questo ci porterebbe troppo lontano dai nostri argomenti.

    Tuttavia è ancora più preciso dire che non è “la” cultura borghese quella dominante, ma la cultura che i borghesi vogliono proporre come dominante, quella è cultura maggioritaria.

    Faccio questa distinzione perché chi sta al potere sa benissimo che la legalità non è un valore, ma uno strumento di gestione della vita sociale: se qualcuno vuole imparare qualche lezione dalla attuale classe dominante, la lezione sta proprio nel fatto che un modo per essere eversivi è quello di contestare ogni giorno il quadro delle norme fondamentali di un ordinamento.

    Il fatto che esista un filone di pensiero che sostiene che la vecchia legalità, il vecchio patto sociale, era migliore di quello che viene costruito dalla attuale classe al governo, è una verità senza anima e senza progetto, che va bene per i moralisti, ma che poco funziona come strumento di trasformazione. E’ un poco come sentire i vecchi che parlano dei bei tempi andati.

    Allora bisogna capire che il problema non è solo se ci si pone come interni o esterni al patto sociale, non è se si rifiuta la legalità o certa parte di questa legalità, il problema sta nel “come” lo si fa, nel “perché” e nel “per chi”.

    Infatti c’è molta confusione relativamente alla proprietà privata tra chi, ad esempio, dice: mentre loro occupano un centro sociale, allora io vado a dormire a casa loro.

    Questo dimostra la non conoscenza dei contenuti fondamentali dei principi socialisti, che mettono in discussione la proprietà privata dei mezzi di produzione e, conseguentemente, la legittimità del grande accumulo di ricchezza in poche mani, ma non mettono altrettanto in discussione la disponibilità della propria abitazione, dei propri vestiti, dei propri automezzi o dei propri beni personali.

    E’ una confusione comune. Tuttavia chi fa il paragone tra occupazione di un bene vuoto e di possibile interesse pubblico, con la occupazione di una casa privata di un occupante quello stesso spazio, non si rende conto (o forse si?) del contenuto implicito di violenza privata e di richiesta di repressione che sottosta al ragionamento.

    Tuttavia il significato di una occupazione può essere chiaro: è normale che un singolo (proprietario? Possidente? Padrone?) possa fare “ciò che vuole” di intere porzioni di città solo in virtù del denaro che possiede? E’ ovvio che da questa domanda consegue un fila di altre domande in continuità logica con la prima, che mettono profondamente in discussione il contesto sociale in cui viviamo.

    Allora forse si capisce un poco di più il senso della occupazione: è la costruzione concreta di una esperienza concreta che può aiutare tante e tanti a porsi domande, a ragionare diversamente sul mondo che hanno trovato già confezionato per loro.

    Così come si è scelto di occuparsi di politica in modo concretamente (e dagli!) diverso da quanto fanno le altre organizzazioni e gli altri gruppi: per noi fare politica è un privilegio per il quale siamo disposti a mettere in comune parte dei nostri averi. Per essere pratici: ognuno di noi versa una quota mensile per pagare le spese correnti, come affitti, bollette, utenze, fotocopie, bombolette, striscioni, impianti audio, generatori, ecc. Poi sicuramente è in comune anche ogni frutto del lavoro comune.

    In altri termini: il nostro modo di fare politica non è un mestiere, come può capitare nelle strutture classiche, quindi nessuno di noi si avvantaggia facendo un uso privatistico del denaro pubblico. Al contrario la circolazione di ogni centesimo va sempre dal pubblico al pubblico, attraverso i laboratori, la palestra, i volantini per fare conoscere le nostre idee, ecc. ed è solo in questo senso che esiste un beneficio anche per tutti i componenti del collettivo, cioè nella possibilità di fare qualcosa che nessuno di noi individualmente avrebbe la forza, il denaro o il potere di fare. E’ questo il miglior antidoto contro l’individualismo.

    Tuttavia anche questa potrebbe sembrare una modalità di esclusione in base al reddito: solo chi guadagna molto, può versare dei soldi per una causa comune (basta aumentare la quota sociale, per avere una selezione del genere). Per questo noi applichiamo il vecchio adagio socialista secondo il quale “ognuno dà in base alle proprie possibilità e riceve in base ai suoi bisogni”: tradotto significa, che ognuna e ognuno di noi versiamo un contributo commisurato alla nostra possibilità di spesa. Quindi ci sarà chi versa più soldi e chi ne versa meno, ma tutti godiamo degli stessi diritti e della stessa possibilità paritaria ad esprimersi all’interno del collettivo.

    Ancora un tema voglio trattare nel mio intervento e parto da questa citazione dal primo intervento:

    “Il primo scopo di chi vive all’interno di un sistema democratico, oggigiorno, è quello di rendere questo il più armonico possibile, perché non è possibile cambiarlo, in quanto, essendo più grande della somma delle parti, sfugge ad ogni intervento localizzato.”

    Sembra proprio una affermazione che non tiene conto della realtà, perché stiamo vivendo in un sistema giuridico, istituzionale, sociale in continua e rapidissima mutazione: nel giro di pochi anni, più nulla delle strutture fondamentali della nostra convivenza sociale è rimasto e rimarrà immutato.

    Semmai è vero che non sono cambiate le cose in funzione di un vantaggio per chi sta in basso nella scala sociale, per quelle che definirei “le classi subalterne”. Ma questo significa solamente che non siamo stati capaci di essere all’altezza della sfida, non che nulla può cambiare.

    Certo la violenza di questa trasformazione non la vediamo pubblicizzata nei mass media: la violenza degli operai licenziati e pestati dai poliziotti (che pur provenendo o facendo parte del mondo della subalternità, fanno tuttavia ogni giorno una scelta di campo), la violenza sui migranti cacciati nei centri di identificazione, sui campi rom bruciati, nei giovani come Carlo Giuliani uccisi nelle manifestazioni, nei disoccupati cacciati di casa, negli nuova generazione di studenti picchiati, incarcerati, ecc.

    E la citazione continua:

    “Il primo fine di qualsivoglia movimento deve quindi essere quello di ridurre i conflitti evitando di fare della propria esigenza l’esigenza di ognuno.”

    A questa affermazione risponderei con due citazioni finali.

    La prima, la cui fonte è raggiungibile all’indirizzo http://www.antiwarsongs.org/canzone.php?id=1558&lang=it , è tratta dal testo della canzone “Contessa” di Paolo Pietrangeli:

    “Voi gente per bene che pace cercate
    la pace per far quello che voi volete
    ma se questo è il prezzo vogliamo la guerra
    vogliamo vedervi finir sotto terra
    ma se questo è il prezzo l’abbiamo pagato
    nessuno più al mondo deve essere sfruttato.”

    La seconda è la seguente, da una poesia di Pasolini tratta dalla raccolta “Poesia in forma di rosa” il cui titolo è “Vittoria”, rintracciabile all’indirizzo http://www.antiwarsongs.org/canzone.php?lang=it&id=9090 :

    “Dove sono le armi
    io non conosco
    che quelle della mia ragione
    e nella mia violenza
    non c’è posto
    neanche per un ombra d’azione
    Non intellettuale
    faccio ridere
    ora se suggerite dal sogno
    in un grigio mattino che videro
    morti
    e altri morti vedranno
    ma per noi non c’è
    che un ennesimo mattino
    e grido parole di lotta”

    La risposta è che non è mai troppo tardi per mettersi a gridare le proprie parole di lotta e se una risata verrà suscitata, sarà soltanto una risata di gioia contro chi ci vorrebbe schiavi.

  10. Grazie per questo commento Enrico, speravamo di sentire anche la voce del Guernica sulla questione, così la discussione ha potuto assumere più prospettive ed arricchirsi.
    Hai toccato temi interessanti e condivido ogni parola del tuo discorso. Come ho già detto il Guernica è una realtà che fa politica per davvero a Modena e per questo rappresenta una risorsa per la città, arricchisce un confronto asfittico.
    Noi su questo blog cerchiamo di fare quello che fate voi con gli spazi fisici cittadini: creare un’area nella quale si possa discutere liberi dalle catene che le sedi istituzionali o gli strumenti dell’informazione non indipendenti creano.
    Perciò vi rivolgo questo invito: se qualcuno del Guernica volesse usare questo spazio per scrivere sappiate che sarete i benvenuti. L’ho già detto più volte a Davide, ma fino adesso non ha raccolto questo invito. Ad esempio se qualcuno di voi volesse raccontare che cos’è il Guernica, come è nato e che cosa fa sarebbe molto interessante.

  11. Allora, non rispondo punto per punto perché hai scritto un post di una lunghezza che va contro i principi di natura e mi sa fatica sezionarlo.
    E’ evidente che si sta ragionando su due piani diversi. In realtà tu hai fatto l’apologia di quello che fai, e mi chiedo se tu abbia colto il sunto dell’articolo, che non è un fanculo al Guernica, ma è un fanculo alle soluzioni di comodo che corrispondono
    all’estetica guernica.
    Cerco di fare un discorso coeso:

    Io non ho detto che non esistono più le classi, ho detto che non esistono più come compenetrazione di cultura ed economia nel determinare un’antropologia, una visione del mondo. Esistono eccome classi economiche, ed esistono da sempre, da quando la prima
    scimmia prese in mano l’osso e ne fece un’arma e vinse su quella che invece si difendeva lanciando mirtilli. Ho semplicemente sottolineato come ormai le divisioni siano puramente economiche, mentre la mentalità è in ogni strato sociale quella borghese. E qual è la mentalità borghese? Quella che vuole impadronirsi delle cose, vuole proporre visioni accomodante, vuole che esistano un BENE e un MALE, che non considera le sfumature, che cerca la razionalità degli eventi. Quella stessa mentalità che fa sì che tutte le rivoluzioni esprimete voi nel momento in cui riproducete uno scontro che è totalmente inattuale dal punto di vista culturale, perché opponete un potere ideologico ad un altro potere ideologico, con il risultato che non vi è differenza alcuna tra voi e chi volete combattere. Non siete un’associazione umanitaria, non siete uno spazio culturale aperto e libero, siete un luogo di aggregazione per chi ha scelto di asservirsi ad una causa perpetrata nel recitare come mantra certi slogan. Uno fra tutti quello contro i poliziotti: parlate tanto di chi società ma ignorate che anch’essi, nonostante i casi scandalosi, che ci sono e nessuno lo nega, sono individui come voi con famiglie come voi che per campare hanno scelto di fare quel lavoro per le motivazioni più svariate.

    Invece di farmi l’autodifesa del movimento perché non rendi conto di questo. Perché non rendi conto di questi errori clamorosi che fate nel considerare, invece di citarmi cose a caso che Pasolini non ha mai fatto altro che dare addosso a movimenti come il vostro. Lui, fosse vivo, vi chiamerebbe la vostra “la rivoluzione dei figli di papà”.
    Io su questo pongo l’accento. Non sull’importanza dell’agire sociale, che conosco bene perché ho conosciuto realtà molto meno sterili della vostra dal punto di vista di visioni del mondo che arricchiscano. Pongo l’accento su un modo di vivere la resistenza al potere, all’ingiustizia, che per combattere i suoi nemici sceglie di assumerne la natura.
    Io vorrei poter contare sull’azione di gruppi associativi che perseguano ideali (perché no, usiamoli) senza precludersi nulla, che scelgano di onorare un fine (il più concreto possibile) e non un’ideologia, che siano porti franchi. Che non abbiano tra le loro fila gente che canta: “Quant’è bello far le foibe da Trieste in giù”, che per quanto mi faccia ridere (sono un amante dello humor nero e del politicamente scorretto) da un lato la dice lunga.

    Poi riguardo al concetto di legalità, va bene, il biopotere, il panopticon, il controllo, ci sta, parliamo in questo modo.
    Tu mi dici: per le classi al potere è uno strumento di controllo. Perfetto, ma per te? per me? per l’operaio?
    Tu mi dici: la lezione che si impara dalla classe politica è che per essere eversivi bisogna uscire dalla legalità. Perfetto, ma con che coraggio tu puoi dire “lui non può (che sia un fascista o più semplicemente un politico), mentre io sì”.
    E ancora: cos’è più eversivo oggi? Occupare o cercare di tenere duro, nei valori fondanti della democrazia, cercando di ampliare le basi dello stato liberale come il saggio liberalsocialismo vuole, come ci ha insegnato Socrate che scelse di pagare con la vita pur di non violare le leggi della città che lo avevano cresciuto?

    Scegliete voi da che parte stare. Io con il mio intervento volevo indurvi a riflettere sul fatto che la realtà oggi è ben più complicata di quello che voi (uso il voi, ma so bene che ci sono differenze, tu mi sembri un giovane assennato, per esempio) pensate, stando al modello interpretativo che proponete. Ci sono delle contraddizioni da abitare, bisogna in quel senso rinunciare a se stessi nel senso di essere consapevoli della propria visione del mondo, senza pensare che debba valere per tutti e che sia la migliore.
    Ripeto: pensateci, mettetevi lì e chiedetevi: “lo faccio per la società o lo faccio per me che altrimenti senza tutto questo non so dove sbattere la testa”. E domandatevi: “Sarei così rivoltoso da accogliere il reale nella sua interessa o mi è comodo rimanere servo di una e una sola prospettiva?”

    Rileggiti la mia distinzione fra rivoluzione e rivolta e chiediti di cosa ci sia bisogno ora, se di una catena umana solidale tra uomini o di un’altra, ennesima rivoluzione di potere, dove per liberare l’individuo si finisce per metterlo in catene, qualora non sia d’accordo.

    Saluti, stammi bene

  12. Purtroppo è pieno di errori, non avevo tempo di rileggerlo e alla fine sembra la prova scritta dell’esame di abilitazione per avvocati.

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