Identità e valori: la generazione 80/90.

Scelgo di affrontare questi due temi per una ragione: credo che nella loro relazione, costituiscano all’interno della società contemporanea uno di quei problemi-nocciolo che concorrono in modo determinante nel fondare le basi del riconoscimento dell’individuo e della società stessa. Indubbiamente è un tema sterminato, che come sempre cerco di analizzare a partire dalle mie esperienze personali, sperando che risulti utile e interessante ai lettori (e non solo).

Tutti sentiamo dire oggi cose del tipo :<<C’è la crisi dei valori>>, <<I giovani non sanno più chi sono e cosa vogliono>>… Al di là dei luoghi comuni, che tendono a semplificare, gli allarmi lanciati fanno emergere una questione scottante che riguarda tutti. Quella dell’identità e dei valori è una questione complessa, che richiede una risposta complessa. Tra le cause che hanno condotto a questa crisi vengono spesso menzionate la dimensione della velocità che contraddistingue  la nostra esistenza e il troppo benessere di cui abbiamo goduto. Personalmente li considero due aspetti fondamentali su cui si possa intervenire, ma in questa sede mi piacerebbe approfondire maggiormente gli effetti che queste due cause (e non solo) hanno avuto sulla crescita di una fascia della popolazione modenese. Mi riferisco in particolare alle persone nate tra gli anni 80 e gli anni 90. Questa fascia è quella che più di tutte è cresciuta beneficiando di quel tesoro che prima i nostri nonni e poi i nostri padri avevano costruito a partire dagli anni 60 e anche prima. Inoltre è la “generazione” (se ha senso parlarne) che per prima si è aperta fin dalla giovane età all’utilizzo di nuovi mezzi tecnologici come il computer, la televisione, il cellulare, la Playstation che hanno rivoluzionato completamente il modo di vivere e crescere di questi individui. Fino adesso ho detto cose che tutti sanno, ma questa era solo la premessa. Quello che vorrei affrontare ora è quello che non vogliamo accettare (e mi ci metto dentro perché sono nato nell’88). Vorrei parlare di tutte quelle conseguenze, di quelle critiche che spesso rivolgiamo ad una maggioranza indefinita di nostri coetanei, e che non diventa quasi mai autocritica, anche se tanti aspetti (lo sappiamo benissimo) ci riguardano direttamente. Chi non è cresciuto guardando la televisione il pomeriggio da solo a casa? Chi non giocava con gli amici ore ed ore alla Playstation? Chi non ha mandato centinaia di messaggi con il cellulare in modo compulsivo? Chi non rimaneva attaccato ore al computer a giocare, o a navigare su Internet (ora c’è facebook)? Eppure quando qualcuno di noi (generazione anno 80/90) ne parla criticando non ci si mette mai dentro. Sarà una rimozione freudiana, che comprendo, ma non accetto, perché il riconoscimento di questa cosa e dei suoi effetti credo sarebbe salutare per tutti.

Ora veniamo agli effetti. I nostri nonni erano una generazione molto unita, perché? Erano quasi tutti poveri, contadini o operai e molti avevano partecipato alla guerra nelle file dei Partigiani. Sapevano (e sanno) chi erano e chi sono e quali erano i valori comuni che li legavano che li rendevano una comunità.

I nostri genitori sono molto diversi dai nostri nonni. Loro hanno ricevuto un mondo da costruire con le basi già fatte (dai nostri nonni). La maggior parte dei nostri genitori non erano ricchi, ma non hanno fatto neanche la fame e quasi tutti hanno potuto scegliere quale lavoro fare: c’era lavoro per tutti. Sono quelli che più di tutti hanno determinato i tratti della società italiana perché hanno vissuto al massimo gli anni del mutamento economico e sociale (anni 60/70). Loro hanno potuto scegliere chi essere e a quali valori aderire.

E ora veniamo a noi. Noi, che siamo un segmento di una generazione, siamo cresciuti potendo avere se non tutto, tantissime cose. Siamo la generazione della troppa scelta, e questo si vede perché chi ha troppe scelte o decide di non scegliere (spesso fa scegliere agli altri) o impara a scegliere benissimo. Siamo quelli soli, perché siamo cresciuti di più con il computer e la Playstation che con gli amici in mezzo alla strada (c’era paura degli immigrati e di tanti altri nemici della società). Così abbiamo imparato a stare da soli e a ragionare da soli. Siamo cresciuti soli ed è per questo che siamo tutti uguali e tutti diversi, viviamo nel paradosso della contraddizione: tutti siamo cresciuti in quella maniera, ma ognuno ha fatto un percorso diverso. Quindi quando ci parliamo preferiamo farlo attraverso facebook o attraverso gli sms perché questi semplificano le cose e tendono a non fare emergere le differenze. Se abbiamo dei problemi con i nostri amici non li risolviamo con loro, ma ne parliamo con terzi perché è più semplice: per questo a Modena tutti sanno tutto di tutti. Il confronto ci fa paura, perché è dispendioso e crea sofferenza, tranne quando hai un rapporto asimmetrico nel quale io ho ragione e tu sei d’accordo. Quindi non sappiamo chi siamo o nel migliore dei casi sappiamo chi siamo, ma non sappiamo chi sono gli altri, quindi fatichiamo moltissimo nel riconoscerci in un gruppo, figuriamoci in una comunità. Prova ne è che siamo tutti cosmopoliti (cittadini del mondo, tutti conoscono questa definizione) e poi forse italiani, ma certamente non ci riteniamo emiliani (nella maggior parte dei casi) né tanto meno modenesi.

Mi fa sorridere tutto questo e un po’ mi intristisce. Mi sembra di parlare di luoghi comuni e di situazioni artificiali, ma non posso negare che facciano parte della nostra vita, ce le ritroviamo davanti tutti i giorni.

Questi sono i fatti, almeno come li vedo io. L’ambiente di una generazione modenese.

Poi va anche detto che ci sono alcune persone (una minoranza) che ci provano, che si sbattono, che si arrabbiano, che non mollano mai: sono persone che credono nel futuro che sembra che qualcuno ci abbia tolto. E qui mi ci rimetto dentro assieme a tutti quelli che scrivono e parte anche di quelli che seguono questo blog, assieme a quelli che scelgono di fare volontariato, assieme a quelli che scelgono di fare politica perché ci credono e non perché vogliono fare carriere, assieme a quelli che se ne sono andati per imparare e tornare in città per mettersi a disposizione. Sono tanti anche questi, ma rimane sempre l’ambivalenza e la contraddizione con quella dimensione che ho descritto prima, che quando siamo deboli ci prende e ci fa galleggiare inerti.

Allora di fronte a tutto questo intendo lanciare un messaggio forte, con la speranza che cambi qualcosa, che crei coscienza in qualcuno. Qui, da questa piazza virtuale che abbiamo costruito con sudore e sacrificio, lancio un appello a tutti quelli che vogliono ascoltare: non arrendetevi mai, imparate a conoscere voi stessi aprendovi al confronto con gli altri, e superate la paura (=paranoia). Io ci provo ogni giorno e sono contento dei risultati, anche se naturalmente non sono perfetto. E quando sarete da soli e tristi ricordatevi che altri come voi continuano a lavorare per non arrendersi all’apatia, alla sfiducia e alle difficoltà che questo mondo ci ha messo davanti.

Enrico Monaco

20 risposte a “Identità e valori: la generazione 80/90.

  1. Io sono fiero di essere quelo che sono; qualunque cosa sono.
    Da qui all’eternità sono fiero di essere nato negli anni 80/90, e di essere tuo amico.

    Io vado avandi
    Tu mi segui

    Io faccio un errore
    Tu mi ammonisci con gentilezza fraterna

    Io ti ascolto
    Tu mi difendi

    Non sono mai solo
    Non sei mai solo

    Grazie Enry finalmente ho capito grazie a te e alle tue parole una frase di D Andrè che dice così:

    “Madre, nella pietà che non cede al rancore, ho imparato l’amore”

    Anche se siamo cresciuti in solitudine
    i legami, la cui forza è riconoscibile in qualunque punto del globo, ci legano.
    E anche se è stato difficile, e sarà difficile (xkè lo sarà)…
    …una luce ci guida, la luce dei legami che non moriranno mai se non con la caduta dell’uomo.

    Con infinito Affetto Marcello Bergamini

    • è un onore per me ogni giorno percorrere il mio cammino in compagnia di una persona come te, su cui puoi sempre contare che non ti abbandona neanche davanti ad un esercito che ti marcia contro… Quindi onore a te Nero!!!

      Il Rosso

      • …ho già pietà di quell’esercito che avrà l’ardire di marciarvi contro 🙂

        un abbraccio da uno degli anni 70…

  2. mah…
    forse l’essere uno degli anni 70 come il “Baldoni” mi ha fuorviato ma ho come l’impressione che le ipotesi siano un po’ leggerine (e forse eccessivamente lunghe) per arrivare alla tesi finale racchiusa nel “provocatorio” invito al non arrendersi… magari è l’ora tarda, magari invece ho solo voglia di far polemica, a volte succede, magari è il fatto che in un migliaio di parole compare tre volte “playstation” e nessuna volta “responsabilità”, nessuna volta “fatica”, nessuna volta “impegno”… non so, anzi si, sto polemizzando, e per farmi perdonare consiglio a tutti due cose:
    la prima è un film: Non è un paese per vecchi (2007 – Fratelli Coen), la seconda è un libro, anzi un saggio: Non è un paese per giovani (2008/09 non ricordo, di Ambrosi e Rosina) del quale vi lascio una piccola recensione tratta dalla rete

    “Non è un paese per giovani

    Da sempre sono i giovani la parte più dinamica di una società: sono loro a travolgere le barriere della tradizione, a proporre inedite letture della realtà. Eppure in Italia, per le nuove generazioni, questo non vale. Scopertesi improvvisamente “rapinate” del proprio futuro, non accennano a reagire. Il conflitto generazionale è disattivato. Manca la spinta al rinnovamento e la società rimane rigida, poco reattiva davanti alle grandi sfide. Gli autori analizzano senza sconti le responsabilità di due generazioni, in modo diverso protagoniste in negativo dell’Italia di oggi. Padri che monopolizzano spazi e risorse disponibili, senza curarsi del bene comune; figli
    che dipendono morbosamente dalla famiglia, senza coraggio né capacità di immaginare un futuro diverso: sono alcuni dei motivi che rendono l’Italia un paese che non cresce, dove i giovani hanno scarso peso e poca voce. Sullo sfondo un interrogativo ineludibile: è ancora possibile, per i figli, un pieno riscatto o appare sempre più concreta l’inquietante ipotesi di un “salto di generazione”?”

    ah, visto che si citano i genitori vi segnalo anche questo: Un gioco da bambini (james ballard). si legge in un sorso…

    buonanotte ai suonatori
    R.

    • Ti ringrazio per il commento… La premessa è stata scelta volutamente: cerca di mettere in luce ciò che è e non ciò che non è (come fanno la maggior parte delle critiche alla generazione x); per questo c’è playstation 3 volte e non c’è mai impegno. Fare queste analisi credo che sia molto difficile sia per l’ampiezza e la complessità del tema sia perché è un tema trito e ritrito (si rischia di annoiare il lettore dopo 3 secondi). Ho cercato di metterla sull'”autocritica generazionale e collettiva”, il che credo sia ambizioso, per questo forse sembra che me la sia cavata con poco. Purtroppo per scrivere quel che ho scritto e non risultare manchevole bisognerebbe andare almeno sulle 3 pagine e ho sentito la necessità di postarlo proprio in quel momento quindi non ho potuto conciliare le due cose. Comunque sarebbe interessante capire come si vede la generazione prima di quella degli anno 80/90 e come vede quella dopo: purtroppo su questi due aspetti non ho mai potuto raccogliere opinioni abbastanza corpose per farmi un’idea.

  3. Ti sei lanciato in un discorso molto complicato, ma interessante.
    Provo ad esprimere qui brevemente le riflessioni che mi suscita:

    una cosa molto importante da fare, secondo me, per discutere dei valori è prima stabilire che cosa sono.
    Si tratta della sensibilità ai grandi temi? Si tratta di ideali astratti? Sentimenti?

    In quest’ultimo caso, penso esistano poche persone che non comprendono nemmeno a livello inconscio il senso dell’amicizia, del legame di sangue col genitore, dell’affetto verso il partner. In questo senso dunque i valori ci sono eccome.
    Possiamo poi essere d’accordo sul fatto che molti non sono capaci di prendere coscienza/riflettere su questi valori-sentimenti. Ma li hanno lo stesso.

    Se parliamo invece di ideali astratti, come quelli che sottendevano grandi correnti di pensiero, entra secondo me in gioco una questione diversa dal semplice avere/non avere valori, ossia: i valori sono o sono sempre stati frutto di una scelta? Aderire ad una grande ideologia potrebbe non essere un processo del tutto consapevole per nonni, padri o figli. Entrano in gioco fattori molto più imprevedibili come l’educazione, l’ambiente, le alternative.

    Qui mi ricollego al tuo discorso del crescere soli: non è semplicemente un effetto della troppa scelta, come dici tu. Secondo me è un effetto molto più perverso e subdolo di un altro aspetto della nostra società: i diritti.

    Oggigiorno il mondo occidentale assiste ad una proliferazione dei diritti, diritti ovunque, diritti per qualsiasi cosa. Ed i diritti sono esattamente ciò che mancava alle generazioni precedenti la nostra.
    Il problema qui sta nella concezione occidentale del diritto: esso è uno strumento della libertà del singolo. Il diritto non è mai collettivo, è una prerogativa di ogni SINGOLA persona fisica. Inoltre i diritti sono generalmente percepiti come un’arma. Quante volte si sente dire: io lo denuncio!
    Mano a mano che si conquistano nuovi diritti, ci si corazza sempre di più dal mondo esterno, perchè il diritto ha senso solo se è applicato, ed è applicato solo se c’è una parte contro un’altra, una parte che deve qualcosa all’altra.

    Mi piacerebbe sapere cosa ne pensi.

    L’ultima cosa: io sono un modenese dell’88 e mi ritengo piuttosto cosmopolita, visto che studio a Venezia e fra poco andrò a studiare a Shanghai, ed è proprio questo tipo di confronto, questo cosmopolitismo che mi rammenta ogni giorno e rafforza in me la percezione di essere un italiano, un emiliano e un modenese.

    • Ti ringrazio per il commento dal taglio interessante e stimolante e ti rispondo subito con ardore. I valori credo che abbiano una base comune da quello più particolare come quello di sangue a quello più universale come il cosmopolitismo. Si basano sull’affettività, sulla capacità dell’uomo di essere tale, quindi di emozionarsi, di vivere i sentimenti e così via. Per motivi di studio ho avuto modo di constatare come il meccanismo dell’affettività sia oggi messo profondamente in crisi dalle condizioni che tu evidenzi (educazione, ambiente…). Infatti nel post ho voluto dare una visione storico-generazionale sull’educazione, ambiente ecc. ecc. per mettere (ahimè brevemente) in luce come sono cambiati. Quando mi dici che il solo fatto di avere un valore basti non sono d’accordo e questo è un problema fondamentale: se ad esempio sono un impresario e credo nella parità tra uomini e donne e poi di fronte ad un’impiegata che rimane in cinta penso all’azienda e al profitto e la licenzio, io il valore c’è l’ho, ma non lo applico, quindi rimane astratto e metafisico. Quindi il processo di coscienza deve poi portare all’applicazione nel reale, altrimenti è come non disporre dei valori che scegli.
      Torno al discorso della base comune del valore. Molti studiosi (tra cui Piaget, psicologo e pedagogo famosissimo) sostengono che il processo di formazione dell’identità della persona abbia tra le sue tappe fondamentali i primi anni di vita. Ora è per questo che ho voluto riprendere la condizione dei giovani della generazione degli 80/90, perché credo che descrivendo questa, dopo sia lampante il riscontro di quelle problematiche che tutti hanno sulla bocca oggi.
      Tu poi mi parli dei diritti e credo che tu abbia tirato fuori un bellissimo aspetto (credo legato al tuo percorso di studi). Ma tu lo poni come una causa. Invece io penso che sia un effetto. Perché i nostri nonni non potevano avere il diritto ad un lavoro
      sicuro (erano sottoposti a fenomeni quale il caporalato) e a tanti altri? Perché non avevano lottato per ottenerli. Un diritto nasceva spesso da una lotta (rivoluzione francese, rivoluzioni borghesi 1848). Oggi il meccanismo perverso del diritto sta nel fatto che le vecchie lotte, che sono tante e di grandissimo valore, vengono usate come fonte di legittimità per creare nuovi diritti, così il diritto non è espressione di una lotta contemporanea, ma diventa astratto e pretestuoso. Ma perché uno può oggi arrogarsi il diritto di denunciare una persona per una cretinata qualsiasi? Perché dispone di denaro e di altri diritti, ma prima di tutto di denaro, perché senza quello vai poco lontano in Italia. Per questo metto tra le cause fondamentali del disagio giovanile il benessere e non l’ipertrofia del diritto. Perché noi potevamo fare mille cose perché c’erano i soldi in casa, non perché avevamo il diritto (condizione necessaria, ma insufficiente). Tanto che oggi con la crisi vedi che le persone, dal momento che hanno meno soldi, sono tornate alla realtà, tendono a non sputtanare i soldi, ma li usano per ciò che serve, quindi riscoprono il valore del denaro che era stato perduto durante i tempi delle vacche grasse. Poi volevo contraddirti (ma in modo benevolo) sul diritto collettivo: esiste e ultimamente si sta sviluppando. Un esempio sono leggi come quelle sulla Class Action dove un insieme di cittadini si uniscono contro una Lobby perché danneggia dei beni comuni (quindi collettivi) come l’ambiente, i diritti ecc.ecc.
      Sull’ultimo punto è una questione molto sottile, ma che crea distinzioni importanti. Io non sono contro il cosmopolitismo, ma credo che per essere salutare debba essere il risultato di un percorso: prima bisogna prendere coscienza della realtà modenese, poi di quella emiliana, poi di quella nazionale, poi europea e così via. Si procede dal più piccolo al più grande, dal particolare e dall’universale e poi viceversa (ma solo dopo), in una circolo virtuoso ed ermeneutico. Ma quelle persone che conoscono le tradizioni orientali afgane e turche e poi non sanno dove si trova geograficamente Catelnuovo Rangone mi fanno un po’ sorridere francamente (vedi critica al metodo fricchettone e non all’idea), perché vogliono parlare dei massimi sistemi e non conoscono casa loro. Io credo che per accettare e comprendere le altre culture sia fondamentale prima di tutto conoscere bene la propria. Solo così si può essere veramente cosmopoliti, altrimenti si è solo confusi e nel migliore dei casi eruditi nel raccogliere frammenti, se vuoi belli, ma che insieme sono solo un mosaico con poco senso.
      Comunque ti ringrazio sinceramente del commento è stato sicuramente il più stimolante e spero di riceverne altri. Io mi impegno come ho già fatto a commentare in modo stimolante i tuoi.
      Grazie Gabriel

  4. Non capisco questa tendenza a generalizzare una conoscenza del tutto parziale. Seriamente.

    Dici che la cultura va conosciuta per cerchi concentrici partendo da quello localmente più piccolo al più grande. In un momento storico segnato da spostamenti, migrazioni, cambiamenti geografici continui, davvero sei convinto che si possa ancora parlare di una percorso lineare ed univoco che parte dalla città per passare alla regione alla nazione e via dicendo?

    Nel concreto, per esempio: come li inquadriamo, in questo tuo sistema, i figli di immigrati? Che parlano dalla nascita due lingue e sono figli di due culture diverse e distanti… In effetti potresti dir loro di studiare la storia di Modena dell’Emilia d’Italia d’Europa e poi del Mondo finché non incontriamo il loro Paese d’Origine. Se sei figlio di un Giapponese cominci a sapere qualcosa del tuo Paese quando studi Pearl Harbor, peccato. Un po’ semplicistico, magari, ma è colpa tua, la prossima volta nascevi più vicino.

    Più vicino… parliamo di questo, visto che lo citi per sfottere gli altri: non capisco bene perché le tradizioni afgane o turche dovrebbero essere meno importanti del fatto di sapere dov’è Castelnuovo. Non mi spiego perché dovremmo dare un valore di rilevanza ad un luogo solo perché fisicamente più vicino a noi. Illustrami, per favore, in base a quale criterio il “vicino” ha più importanza del “lontano”, in un periodo storico, in cui, tra l’altro, la modernità ha pressoché azzerato le distanze fisiche.

    Tu credi (parole tue) “che per accettare e comprendere le altre culture sia fondamentale prima di tutto conoscere bene la propria”. Io no, non lo credo. Anzi, penso che sia proprio grazie alle altre culture che arriviamo a capire meglio la nostra, è con l’interazione che si cresce non con l’individualismo. E a questo proposito ti trascrivo una citazione autorevole, più della mia esperienza di modenese che vive da anni fuori città ed è passata per la Spagna e la Germania:
    “È esperienza comune che viaggiando si prenda coscienza della specificità della propria cultura. Abituato a mangiare certi alimenti, a seguire certi orari, a vestirsi in certo modo e così via, al punto da considerare tutto ciò , chi viaggia scopre che le stesse cose possono essere fatte altrimenti, e con ciò si accorge della peculiarità della propria cultura: si accorge di quello che prima dava per scontato. Al ritorno, scoprirà che il proprio paese può essere descritto attraverso elementi cui prima non avrebbe pensato, perché li pensava così naturali da non meritare attenzione. È in confronto con l’altro che ci permette di riconoscerci”. – P. Jedlowsi “Un giorno dopo l’altro” Il Mulino.

    E a proposito di ciò che diamo per scontato. Questa famosa generazione anni ’80. Forse dire “generazione” è un tantino esagerato. Chiamiamoli coetanei modenesi, ecco. Ma neanche tutti, proprio volendo, io per esempio da piccola non potevo guardare la tv, non avevo la Play e il primo pc me l’han comprato che era già il XXI secolo. Eppure non vado in giro con un timbro sulla fronte che recita “Differente”, non mi sento una diversa emarginata solo perché nei primi anni di vita (quelli così importanti per l’identità) non facevo tutto quello che facevano i miei amici e, anzi, giocavo in cortile.
    Ma facciamo finta per un momento che si possa dire che siamo cresciuti TUTTI viziati, noi che potevamo avere tutto e abbiamo avuto troppo. “Noi” modenesi. E noi emiliani? E noi italiani del centro nord? (la visione lineare dal piccolo al grande è tua). E l’Italia almeno la vogliamo considerare intera senza distinzioni Nord-SUd, e quindi diciamo che siamo cresciuti tutti così, con tanti soldi, la Play, la tv e il cellulare. Bene.
    Ora fai uno sforzo e vai a chiedere a un tuo coetaneo di Berlino Est se la pensa così, se lui c’aveva la Play oltre il Muro. Oppure chiedi a uno che è nato nell’Unione Sovietica e invece adesso è Russo o Bielorusso o Ucraino, se era così anche da loro. O, non so, un ragazzo della ex-Yugoslavia che adesso ha poco più di vent’anni e quando ne aveva dieci era sotto i bombardamenti delle guerra in Kosovo.
    Una mia amica tarantina dice che lei la guerra se la ricorda. Aveva le basi Nato vicino a casa, le passavano i bombardieri sopra la testa, era piccola perché è nata negli anni ’80, guarda caso, ma lo capiva cosa andavano a fare quegli aerei lì. Non parlo di “lontano”, mi pare, io la Puglia e la ex-Yugoslavia le vedo piuttosto vicine, però ho come il sentore che questa cosa non rientri nel tuo schema .

    Magari quando parli delle “persone” o della fascia di quelli nati negli anni ’80 fai attenzione alle eccezioni, perché a me sembrano più della regola che hai stabilito. Quello che tu descrivi è un particolare di un quadro piuttosto complesso, quello della società contemporanea, però poi ti riferisci solo ai modenesi per semplificare la questione. E allora di quante persone stiamo parlando? Modena ha meno di 200 mila abitanti, quanti saranno i giovani tra i 20 e i 30? Io non saprei conteggiarli, ma perché pensi di poter parlare per tutti, a partire dal tuo singolo punto di vista? (anche se questi tutti, su scala anche solo nazionale diventano poi un po’ una minoranza).

    Critichi i fricchettoni perché “vogliono parlare dei massimi sistemi e non conoscono casa loro”, ma tu invece cosa stai facendo? Tu quanti giovani modenesi conosci? Statisticamente dovresti conoscerne più della metà per poter dire con una certa sicurezza che gli effetti di essere tutti (tutti? Sicuro? Io già sono una di meno) cresciuti nello stesso modo ha portato ad un’assenza di valori e alla solitudine.

    E di nuovo, so che mi troverai insopportabile, ma io del resto sono un po’ intollerante verso le generalizzazioni, perciò ti domando: cosa ne sai dei valori dei nostri nonni? A parte quello che hai letto sui libri e quello che magari ti hanno detto loro. Erano una generazione unita? Davvero?! E io che credevo che avessero fatto una guerra civile, tu pensa! Io che credevo che si fossero uccisi addirittura tra consanguinei, perché non stavano dalla stessa parte. Non riesco a vedere una generazione più separata di quella che fu l’Italia durante la Resistenza, per esempio separata tra sopra e sotto la Linea Gotica, o tra fascisti e Partigiani. Potrebbe anche essere che sapessero chi erano perché non avevano scelta, ci hai pensato? Immagino che tu sappia che questa è la peculiarità della società moderna: avere troppe scelte e non sapere cosa o chi essere, perché le chances superano le capacità reali del fare. Ecco. Una volta nascevi figlio del mugnaio e sapevi chi eri perché sapevi che saresti stato un mugnaio. Non è semplicemente che fossero più uniti, ma più poveri e con meno possibilità, di certo. E i valori della comunità ce li abbiamo anche noi. Solo che abbiamo delle comunità diverse. Non abbiamo le famiglie allargate, ma abbiamo famigliari che sentiamo solo via Skype e fratelli che vivono in America. Abbiamo amici sparsi per il mondo, amiche sparpagliate ai quattro venti, ma non meno amiche, per questo. Abbiamo quelli lasciati a Modena e quelli acquisiti in giro. Abbiamo dei vicini di casa di colore e dei colleghi stranieri che hanno anche le loro, di comunità, oltre la nostra. Io non direi proprio che il meccanismo dell’affettività sia venuto meno, anzi.

    Però tu perché pensi di non avere scelta? Perché non hai i valori dei tuoi genitori? Che hanno fatto il ’68 e per questo hanno TUTTI i valori che noi TUTTI non abbiamo. Non può essere che molti abbiano fatto occupazione perché era quello che facevano gli altri? Che alcuni -come sempre- ci credessero davvero e altri si accodassero? Che alcuni volessero solo flirtare con le ragazze come normali 20enni? Su questo mi trovo assolutamente d’accordo con Gabriel che è stato lucidissimo nella sua spiegazione, perciò non vado oltre.

    Ultima cosa. Comincia a diventare un po’ noioso questo concetto del futuro che ci hanno rubato. Non si può rubare una cosa che ancora non c’è. Al massimo si può dire che non ci sono più le condizioni per godere di un futuro immaginato a partire dal passato che ci hanno insegnato finora. Nel senso che non saremo adulti come lo sono stati quelli che ci hanno preceduto, non invecchieremo nello stesso modo. Pazienza. Vorrà dire che troveremo un altro modo, ne immagineremo uno diverso. Una strada non ancora battuta. La peculiarità del futuro è che non ci è dato conoscerlo, quindi basta fasciarsi la testa in anticipo, il futuro ci appartiene. E saremo noi a costruirlo, volenti o nolenti.

    Ma non è a partire da luoghi comuni e generalizzazioni che si dovrebbe iniziare, secondo me.

    • Ciao Cristina. Sono estremamente onorato dalla tua rabbia. Dico davvero, la mia era una provocazione e come vedo è riuscita bene. Inoltre il fatto che io abbia attaccato questa benedetta generazione, che io stesso ho scritto essere una definizione forzata (meglio parlare di segmento di generazione) e che tu reagisca in questo modo contraddice la linea che hai assunto: quello che traggo dal tuo intervento è che ti senti parte di questa generazione e di come l’ho descritta, altrimenti tutta questa rabbia sarebbe eccessiva. Poi apprezzo il tuo intervento perché ci sono delle critiche acute ed interessanti, con le quale desidero confrontarmi, miste però, ad affermazioni alquanto ingenue. Ma passiamo ai fatti:
      Dici che generalizzo una conoscenza del tutto parziale, la mia. Certo, io mi baso su ciò che vivo in prima persona, su ciò che ho studiato nel corso del tempo sui libri(studio Sociologia presso Scienze Politiche) e su ciò che apprendo nel confronto con gli altri. Il metodo è induttivo ed ermeneutico, dal particolare all’universale e dall’universale al particolare, quindi non è lineare, ma circolare. Questo per rispondere al modo con cui bisogna conoscere la cultura: non sono così sciocco da pensare possa esistere nella società complessa la linearità (come ho scritto ad un problema complesso bisogna dare una risposta complessa. Quindi la mia idea concreta è partire dalla città, passare per la regione, arrivare alla nazione, all’Europa e al mondo e poi tornare indietro.
      Poi mi tiri fuori un esempio che non è proprio attinente, quello dei figli di immigrati (immigrati di seconda generazione). Ma ti rispondo cosa penso anche su questo. Io nell’assimilazionismo compensato da un processo di interculturalità. Cioè se siamo in Italia un immigrato la prima cosa che deve fare per poter vivere qui è apprendere la cultura del paese in cui si trova. Quindi credo che sia giusto che i giovani immigrati studino la storia europea, la Costituzione e quant’altro. Questo perché siamo in Italia e non in in Indonesia: credo che l’elemento fisico e geografico continuerà sempre ad essere preminente nella vita dell’uomo, perché non si può paragonare una relazione virtuale ad una faccia a faccia, la seconda ha un valore mille volte più alto e forte. Questo anche per spiegare che è un’assurdità dire che la rivoluzione informatica ha azzerato le distanze fisiche: indubbiamente ha influito pesantemente sui rapporti, ma siamo sempre fatti di carne ed ossa e camminiamo sulla terra, non scordartelo. Tornando agli immigrati. La conoscenza della cultura del paese dove risiedono deve poi essere integrata con i valori della comunità originaria, e di questo si deve fare carico la famiglia in primis e la comunità immigrata di riferimento (se questa non ha i mezzi lo stato, la regione o il comune li devono mettere nelle condizioni di poterlo fare).
      Il vicino è il lontano (mi sembra di sognare). Non so dove sei nata. Se sei nata a Modena dovresti sapere che questa città è tale perché caratterizzata da una cultura, da una storia e da elementi peculiari, specifici. Quindi per un modenese conoscere il territorio modenese (tra cui c’è Castelnuovo) è mille volte più importante che conoscere la cultura turca, perché è come conoscere casa propria. Tu stai dicendo che conoscere la tua casa è importante quanto conosce una casa qualsiasi, anche che sia di un amico (renditi conto). Il tuo pensiero in questo frangente rientra nella cultura del politicaly correct, dove tutti sono degli, tutti sono uguali e sullo stesso piano. Per me è una cosa ingenua e sciocca. Tutte le culture hanno pari dignità in generale(più o meno perché se vogliamo parlare del cannibalismo o dell’infibulazione la cosa diventa interessante), ma per il singolo la propria cultura non può stare sullo stesso piano di una qualsiasi. Sul fatto che viaggiando si impara a conoscere le altre culture sono d’accordo, ma ci sono diversi gradi di conoscenza della propria cultura: come la metti tu comprendi la tua cultura perché essendo in un altro luogo prendi coscienza di aspetti culturali sui quali non hai mai riflettuto. Penso che una persona possa riflettere sulla propria cultura senza andare in India, basta leggere, studiare, parlare con i nonni. Poi il viaggiare è utile, ma viene dopo.
      Ciò che dici dopo è molto confuso e in parte non l’ho capito. Però ti voglio dire questo. La fascia che descrivo sugli abitanti della città è una piccola minoranza, come dici tu, quindi la mia generalizzazione non mi sembra così grave e grande da andare a scomodare i berlinesi o i russi. E qui c’è un’altra cosa che mi fa imbestialire: i discorsi del tipo “la realtà è complessa, tu puoi notare solo alcuni aspetti, non puoi dare un giudizio attendibile”. Questa si chiama arrendevolezza. Io te lo assicuro ne conosco tanti di giovani a Modena tra i 20 e i 30. Poi non ti posso dire se sono più del 50 per cento più uno. E non ho neanche fatto una ricerca su questa cosa. Io ipotizzo, come ti ho detto sulla base della mia esperienza personale, sulla base dei miei studi e sulla base del confronto con i miei coetanei. E arrivo alle conclusioni tratte. Non mi sembra una generalizzazione così grave. Certamente rimane una approssimazione e rimane imperfetta e rimane anche provocatoria, quindi ancora più imperfetta, ma tutto sommato non lontana dalla realtà (altrimenti non ti arrabbieresti così). Detto questo a te danno fastidio le generalizzazioni secondo me perché ti fanno paura. Le generalizzazioni sono conclusioni. Tu in quello che hai scritto ne hai date poche (come la pensi? qual’è il tuo quadro sul tema?). Ah, scusa tu non ne fai di generalizzazioni, tu non giudichi niente e nessuno, perché non è carino e perché non ha senso. Sei però molto brava a criticare come tutti quelli come te (altra generalizzazione, però questa è una gag).
      Critico i fricchettoni: certo. Anche io intendo parlare di massimi sistemi, ma lo faccio studiando, documentandomi e parlando con gli altri, cioè mi impegno, non come fanno loro che la maggior parte delle volte lo fanno per far credere di essere degli intellettuali.
      Cosa ne so della generazione dei nostri nonni. Non ripeterò il mio metodo. Ti voglio dire: sì l’Italia era spaccata in due, e molti non lo avevano potuto scegliere. Ma in tantissimi avevano un identità salta (scelta o no, non si può sempre scegliere, questo è un delirio post-moderno) non erano dei semi-individui che vivono nell’iperuranio. E poi era spaccata a metà l’Italia: adesso in quante parti è spaccata? Mi sembra in frantumi, quindi meglio due grosse metà. Con questo non intendo sostenere posizioni nostalgiche, assolutamente.
      Il discorso sulla nuova comunità mi fa sorridere. Certo bisogna ripartire da qui per creare una nuova comunità su queste basi, non lo nascondo. Ma come è adesso è tutto tranne che una comunità. La situazione è in stato di anarchia, ognuno fa quello che vuole, la condivisione è minima. Non puoi in ogni caso paragonare le comunità virtuali con quelle reali che c’erano una volta: ora sono un millesimo. Domani potrebbero essere migliori di quelle vecchie, perché se la maggioranza imparasse ad utilizzare strumenti come internet e poi cercasse di calarli nella realtà, cioè trasferendo ciò che nasce sul web sul territorio, credo si potrebbe trasformare in meglio l’intero paese. Ma questo è un processo molto lungo, in cui tuttavia credo fermamente.
      Io, come ho detto (forse dovevi leggere meglio), credo di avere tanta scelta. La differenza la fa la capacità di scegliere. Uno che non la possiede non ha scelta viene indirizzato dagli altri (individua eterodiretto). Penso di essere stato chiaro e francamente quale sia la critica (spero di capirlo nella prossima risposta).
      Concludo sul futuro. Scusa, ma il debito pubblico chi lo pagherà secondo te? E chi l’ha creato? E chi ha sfruttato la Terra portandola verso la distruzione? E chi tenterà di metterla a posto? Certo che è nostro il futuro, siamo giovani, gli altri moriranno prima o poi. E certamente invecchieremo diversamente dai nostri nonni e dai nostri genitori. E per concludere (ahimè in modo ripetitivo) ancora una volta dimostri di saper solo distruggere e di non essere propositiva: se non si deve partire dai luoghi comuni e dalle generalizzazioni, da cosa si deve partire?

      è stato un piacere risponderti e spero di poterlo fare ancora…

      • Guarda, mi sa proprio che non ci capiamo.
        Io non sono arrabbiata perché mi sento colta sul vivo, ma proprio per niente. Per inciso non sono nemmeno arrabbiata, sono stizzita e vagamente stufa, perché mi danno sinceramente fastidio i luoghi comuni, compresi quelli stile “noi nati negli anni ’80” che trovano il loro giusto posto nei gruppo di Facebook o nelle catene di mail collettive. E solo lì.
        Quindi mi fa piacere se ti senti onorato, ma quella che tu scambi per ingenuità mia, io la vedo come una tua mancanza, un po’ limitativa, di attinenza al mondo reale là fuori.

        Perché questa tendenza al lamento e alla nostalgia per il buon tempo antico è un tantino molesta, e mi pare che sia un po’ presto per essere stanchi, anche. Che a tenere insieme quelli delle vecchie generazioni, quando funzionava (perché è vero che ha funzionato) non erano “identità e valori” ma progetti; idee; bisogni; desideri di una vita migliore soprattutto. Allora sarebbe bello iniziare a dire cosa desideriamo, dirlo a qualcuno, e iniziare a farlo insieme.

        Ora vado a fare le mie piccole silenziose azioni quotidiane, perché visto che lo chiedi, io parto da lì.

        PS: E la cultura del singolo può proprio starci sullo stesso piano della cultura degli altri, secondo me, io tendo a non mettere dei gradi di importanza del tutto personali a chi esce dai miei confini. E non studio nemmeno sociologia, te pensa.

        PPS: il commento l’ho scritto a due mani via Skype con una mia carissima e modenessisima amica, che sento quasi solo su internet, visto che lei abita a Roma.

  5. Mi permetto, essendo l’amica modenesissima, di aggiungere che: prendere coscienza “della culla, della camera da letto, del giardino, del quartiere, della città, della regione, della nazione…” significa considerare la dimensione spaziale. Tu dici che abbiamo un corpo, che camminiamo sulla terra. Incontestabile. Ma il mio corpo, mentre prendo coscienza ad esempio del mio quartiere, incontra altri corpi che come ti faceva notare non solo la cri vengono da chissà dove.
    Concepire lo spazio come un sistema di matrioske, come fai tu, ha funzionato bene fino a un paio di secoli fa (e non è nemmeno detto): adesso, capire un luogo, capire modena è – insieme – capire un percorso storico di un territorio, che è un percorso di costruzione e di cambiamento; capire quello che abbiamo davanti, oggi, sull’autobus, in fila al supermercato, nelle scuole; ma è anche conoscere i luoghi in cui ad esempio hanno decentralizzato la produzione le nostre bravebuonebelle imprese; la provenienza degli artisti che espongono alla Civica; dove vanno a finire i nostri impatti ecologici… e via così. Parlare coi nonni non è più importante che parlare col vicino di casa (dico vicino di casa perchè sono cresciuta in viale Gramsci, tanto per dare riferimenti spaziali precisi). Non lo è meno, sia chiaro. Ma questa seconda cosa sembra assai più difficile. E pensieri come quelli che hai progressivamente messo in campo tu non mi sembra aiutino.
    Se c’è una cosa che mi fa “modenesissima” (oltre ad una insana passione per il gnocco fritto nel caffelatte) è che riconosco alla mia terra, in tempi non così lontani, di aver saputo sognare un cambiamento sociale, per tutti, anche per gli immigrati dal sud, ad esempio. E per tutto il Paese. E questo cambiamento non metteva al centro una prospettiva di identità, ma di ricerca e di rinnovamento.
    E se ho sette anni, e il mio compagno di banco viene dalla turchia, la turchia per me è importante come lo è la città del sud da cui provengono i genitori di tanti miei amici. Perchè mi serve conoscerla per convivere. Per ri-discutere regole di convivenza. Che sono da ripensare, e non solo perchè arrivano persone da altri Paesi, ma perchè è il ripensamento continuo di se stesso che fà di un territorio un posto vivo. Se la cultura non è questo, se non serve a questo, allora non so cosa sia.
    Altrimenti i luoghi si chiamano musei, e sono un’altra cosa.
    Altrimenti, “cosa racconteremo ai figli che non avremo?”, come dice una canzone fricchettona che forse disapproverai: che abbiamo studiato bene la storia della città? E se poi non ne usiamo il meglio, a che serve? A scrivere bei cartelli per far sapere ai turisti che il nostro Duomo è una gran cosa?
    Io nel museo non ho voglia di viverci. E non farei l’errore di considerare ingenue persone che nel cambiamento ci credono, perchè lo praticano e ancora, già più in vista dei 30 che dei 20!, non si lamentano. Nè abuserei di termini come “identità e valori”, “mille volte più importante”, e cose così.

    • Finalmente riesco a risponderti… Volevo dirti, e forse mi sono espresso male, che riguardo a quel cambiamento sociale di cui parli, che ha reso questa città all’avanguardia, io sono assolutamente d’accordo. Sono a favore dell’interculturalità, quello che sostengo è che per confrontarsi bisogna conoscere le culture di riferimento degli interlocutori. Ad esempio questo ha funzionato credo quando le persone provenienti dal meridione sono arrivate qui. Attraverso il lavoro, la condivisione di ideali che indubbiamente andavano al di là dell’aspetto territoriale, si è realizzata l’integrazione. Oggi questo modello sembra esserci inceppato. La mia ipotesi è che oggi più che ieri le persone facciano più fatica a sapere chi sono e quindi ad comprendere chi è diverso da loro. I nostri genitori quando arrivarono i meridionali li accolsero, ma perché sapevano bene chi erano e dove andavano. Ti invito a chiedere ad un tuo coetaneo di descriversi in cinque minuti, credo che sia un esperimento interessante. E quindi se non sapiamo questo non siamo capaci poi di confrontarci con le altre culture. Non intendo riprendere la modenesità come canone intoccabile, anzi, ma credo che sia un punto di partenza per chi è modenese e chi abita a Modena conoscere cose come l’Appennino, qualcosa del dialetto e qualche canzone di queste terre, per non parlare del cibo e di come si cucina. Allora forse si potrà pensare ad una convivenza che arricchisce tutti, ma ora come ora manca il presupposto identitario.

  6. Bè, è interessante notare che il tuo articolo fa molto arrabbiare. Quindi vuol dire che ha centrato l’obiettivo, altrimenti uno non si prenderebbe la briga di rispondere. A me personalmente non fa arrabbiare, l’analisi è chiara e incontestabile le interpretazioni invece possono esserlo di più. Non entro nel merito, perché credo sia già stato detto tutto. A chi si professa cosmopolita, però, e pretende che lo siano anche gli altri al nobile titolo della fratellanza tra i popoli, vorrei dire che sarebbe bellissimo se tutti lo fossimo e tutti potessimo vivere almeno un anno della nostra vita in ogni posto del mondo. E capire tutte le culture del mondo, quanto basta per rispettarle e conviverci.

    (secondo me non basta viaggiare. Io ho viaggiato in tanti posti ma gli unici posti dove ho passato, lavorando, più di un mese sono stati gli unici che sono riuscito a capire in modo un po’ più serio)

    esiste un problema oggettivo a questo sogno. Non tutti possono viaggiare perché costa, e visto che c’è poco lavoro, viaggiare mi sembra un lusso, oggi come oggi. Ma comunque, credo che viaggiare nel senso di “besuchen” non mi sembra sufficiente a capire. Basta solo per vedere.

    Tutti potrebbero però lavorare all’estero, perché domanda c’è, più che qui in Italia. E il lavoro sì che unisce le persone, perché le impegna su un terreno e su obiettivi comuni, il viaggio non necessariamente (specialmente quando breve).

    Allora lasciamo da parte le analisi e le controanalisi.
    Facciamo una proposta visionaria e veramente cosmopolita alla politica: una volta c’era la leva obbligatoria? Un giorno ci dovrà essere il “lavoro itinerante obbligatorio” di almeno 2 anni in quattro continenti diversi. Però si lavora, mica si viaggia. Si condivide, non si paga un servizio. Allora ci sto.
    Esattamente come hanno fatto i nonni che chiama in causa Enrico, sono andati per lavorare, non per viaggiare.

    Bella discussione…
    un saluto a tutti

  7. … “arrabbiare”, suvvia…
    Comunque. Quello che si tentava di fare notare è che l’immagine dell’alienato con la playstation e l’identità gestita su fb, il nonno radicato come un olmo, e il genitore post-sessantottino è un quadro evolutivo (o involutivo, come qui si sostiene) e quindi facilmente condivisibile perchè volenti o nolenti le spiegazioni lineari ci piacciono da morire…
    Anche se tutte queste infinite scelte possibili, e tutta questi agi in cui siamo cresciuti, quando cerchiamo lavoro ci tornano indietro che neanche i migliori boomerang aborigeni… Essendo emigrata in modo inconsulto, non sono so se Modena è ancora l’oasi felice di cui un tempo si cantavano le glorie… so che lì ho diversi amici che si sono fatti un bell’anno di cassa integrazione, e si ritengono assai fortunati; e so che qui a Roma ho altri amici con sonanti lauree ed esperienze, che a stento sopravvivono con lavori tra l’infame e il volontariato coatto.
    Poi.
    Chiaro che dire che la tua, Enrico, “è una semplificazione eccessiva” è una critica scontata, e non è stata fatta: ovviamente siamo su un blog, non scriviamo trattati di sociologia. Però le macro-idee di base, quelle sì, emergono, e si possono non condividere. E sono quelle a produrre visioni eccessivamente semplificate, non i caratteri a disposizione.
    Inoltre. L’esempio del viaggio era appunto un esempio, per dire che l’identità non si costruisce in chiave difensiva, ma dialogica. E si è aggiunto che, per tale dialogo, non c’è bisogno di avere i soldi per andare a raccogliere le fragole a Pechino, basta fare l’abbonamento dell’autobus.
    Poi, comprendo la sensazione “che quando siamo deboli ci prende e ci fa galleggiare inermi”. E’ anche una bellissima frase, e anche queste ci piacciono da morire… (non sto facendo ironie, è una sensazione assai comprensibile, e ben detta).
    Come esperienza personale anche piuttosto recente, posso dire che si può superare quando ci si accorge che i propri pari sono i migliori interlocutori possibili per fare le cose; per cambiarle; per realizzare i desideri. Che poi è quello che dici tu. Solo che io non lo assocerei ad una idea di identità storico-geografico-statica poco discussa, ma al desiderio, al futuro, al progetto, alla diversità, al movimento. Anche quello del bus.
    Per questo capita di commentare in un blog, tra l’altro. Mica perchè si è arrabbiati. Se sono arrabbiata fumo o mi alieno giocando a pacman di google.
    Così, riconosco interessante lo sforzo di proporre un punto di vista su una generazione.
    Noi nati a cavallo dell’80, ad esempio (e mi lancio in ardite generalizzazioni) abbiamo una gran paura di diventare trentenni infelici, mi sa… magari ci faccio un post apposito.

  8. Per ora risponderò all’ultimo commento di Cristina perché al momento sono sotto esame. Mi dici che non ci capiamo: certo, io mi sforzo di risponderti punto per punto a ciò che dici, mentre tu non fai questo sforzo. In questo modo critichi alcuni punti e apri nuovi aspetti rendendo impossibile l’arrivo ad un punto in comune. Credo che ce ne siano diversi, ma così è difficile trovarli.
    Poi, se mi dici che ho solo tirato fuori luoghi comuni stai sminuendo perché non hai voglia di affrontare la questione, quindi forse sei tu che sei stanca, io sono al quinto commento di risposta inerente al post e posso andare avanti ancora.
    Quando poi sostieni che sono un nostalgico, mi dispiace, ma vuol dire che non leggi attentamente quello che scrivo: ho detto nell’ultima risposta che una nuova comunità deve essere ripensata su ciò che c’è adesso, cioè sui presupposti di idee, progetti (per riprendere le tue parole) che emergono oggi. Poi se vuoi ti dico cosa faccio tutti i giorni nella vita a questo pro e ci possiamo confrontare anche su questo piano. Infine vorrei continuare a criticarti sul metodo: in queste due risposte che mi hai dato credo sia emerso troppo marginalmente il tuo pensiero in merito alle questioni sollevate. Ti sei concentrata molto di più sulle critiche. La tua amica è molto più brava a fare tutte e due le cose. Quindi ti consiglio di non farti divorare dalla critica distruttiva (malattia della sinistra italiana dal Pd a Rifondazione) perché sarebbe stato molto più interessante per i lettori, per me e credo anche per te se avessi esposto le tue idee in merito a quali dovrebbero essere i valori di riferimento in questa società o come dovrebbe essere fatta una comunità nel 2010. Però lo puoi sempre fare scrivendo un post, da sola o a quattro mani con Claudia: credo che farebbe piacere e arricchirebbe questa conversazione e chi la segue.
    In ogni caso diversamente da te tu mi hai fatto arrabbiare e tanto, e mi sono impegnato per spiegarti i perché, però sono sinceramente contento di questa conversazione, quindi vorrei ringraziarti per gli interventi. Spero di vederne altri.

  9. Uhu, ma guarda, hai scoperto che ci sono persone che non stanno nelle caselle in cui vorresti metterle tu? Toh.
    Vorresti che rispondessi punto per punto a ciò che scrivi, e che cercassi di arrivare magari a darti ragione. Eh, no: non l’ho fatto, ho criticato e aperto nuovi aspetti, già. E sì: dico che tiri fuori luoghi comuni (e non direi che non ho avuto voglia di affrontare la questione visto che è esattamente per questo che continuo a rispondere), ma sì: sono stanca di ripetermi. Aggiungi che non ti piace il mio metodo perché non ho tirato fuori il mio pensiero. Eh già, è proprio così. (beh è QUASI così, ma non sottilizziamo). E non ti piace che io ti critichi. Eh beh, colpevole di nuovo: l’ho fatto. E la mia amica è più diplomatica, ancora vero (tu dici brava, in verità pensiamo e scriviamo le stesse cose ma se preferisci “brava” a “diplomatica” io non mi offendo). E poi mi rimproveri per non aver tirato fuori le mie idee e i miei valori, eh oh, vero anche questo (beh questo non è così vero, in realtà, ma non importa).
    La parte più bella è “ti consiglio di non farti divorare dalla critica distruttiva” qua sei delizioso, perché giustamente il fatto che io non sia d’accordo con il TUO modo di esprimerti e le TUE argomentazioni fa di me una persona dilaniata da un nichilismo critico autodistruttivo (malattia tipica della sinistra, si sa). Cosa, questa, che ti legittima nel pensare che io – non essendo d’accordo con te e non essendo per giunta costruttiva nel confutare le tue argomentazioni, che mi limito a contestare – sia una persona facilmente inscatolabile nei tuoi schemi. (solo perché non mi interessa farti sapere cosa faccio nella mia vita privata).
    Ma sai cosa? Le persone non si impacchettano facilmente per “ideali e valori e data di nascita” o per culture legate al luogo di nascita e che crescono ad anelli (ed è da qui che ho iniziato il mio primo commento ed è qui che finisco): io ho esordito dicendo che le generalizzazioni stile “noi anni 80” e “si stava meglio al tempo dei nonni” o “i nostri genitori sì che avevano dei veri valori” lasciano proprio il tempo che trovano, perché mi paiono approssimative, superficiali, sbrigative e un tantino pedanti. Ed io, che vengo dalla tua stessa città (sì, sono modenese da non so quante generazioni), e sono frutto della stessa generazione (sì, mio nonno ha fatto il Partigiano e i miei genitori han fatto il ’68) e sono nata nei tuoi stessi anni, guarda un po’: non mi ritrovo per niente in quello che dici. Capisco che la cosa non ti piaccia. Ma tant’è.

    • Questa ultima risposta la trovo un’uscita infelice. In ogni caso risponderò per correttezza un’ultima volta, perché credo che andare avanti così non abbia molto senso. Ma chi voleva incasellare chi? Questa è una tua fobia. L’uomo nell’osservare il mondo che lo circonda è portato a creare categorie, lo fa per dare senso al mondo e soprattutto per creare un linguaggio comune per comprendersi e confrontarsi. Ad esempio in politica si parla di Destra e Sinistra ancora oggi anche se la società odierna è molto più sfumata di quanto non fosse in passato. Possono rappresentare tutto l’universo politico? Certamente no, ma sono sempre esistite dall’Unità d’Italia e continueranno ad esistere fino a quando non saranno obsolete e sostituite da nuove categorie. Sono imperfette queste categorie? Certamente, perché sono create dall’uomo e ogni persona ha una visione soggettiva. Ma la loro funzione non è quella di rappresentare un fascia di popolazione in toto. Servono perché sono indicative di alcuni aspetti, tratti comuni. La domanda sottesa al mio post era questa “è possibile riconoscere nei nati tra gli anni 80 e 90 a Modena una generazione (o un segmento di generazione) accomunato da certi tratti comuni (quelli descritti)? Secondo me sì. Questo non vuol dire che la maggioranza di questi giovani siano tutti uguali, siano tutti alienati o siano tutti infelici, ma che esiste un contesto comune e particolare nel quale sono cresciuti. Significa in altre parole che esiste un minimo comune denominatore che fa di loro un qualcosa. Il fatto che tu non lo riconosca non prova molto, perché le eccezioni esistono e sono sempre esistite, i cani sciolti ci sono e questo è un bene.
      Poi cerchi di farmi apparire come persona chiusa, che parla per luoghi comuni e che vuole avere ragione. Io sono stato trasparente ho scritto ciò che penso e ho risposto alle critiche, si fa così tra persone intelligenti (altrimenti dimmi un altro modo invece di criticare e basta). Tu continui a non farlo e a criticarmi ripetendomi le stesse cose per la terza volta e aggiungendone altre. Questo vuol dire solo che non sei sicura delle tue opinioni. Claudia a differenza di te non è fumosa, sa molto bene cosa vuole ed è chiara nell’esporre. Questo non significa essere diplomatici, ma più bravi nel sapersi confrontare con gli altri.
      Inoltre mi sembri una di quelle persone che si mettono in bocca parole come libertà, rispetto e confronto: l’hai dimostrato bene sulla questione immigrazione (e ritengo che questo sia un valore da lodare). Ma questa operazione va poi applicata anche su se stessi. Tu hai nascosto le tue opinioni o quanto meno non le hai esposte in modo organico in questa sede e hai costruito un muro altissimo per difenderti dalle critiche. Una bella prova di apertura. Mi ricorda tanto una certa cultura Ds che usa come bandiera del suo pensiero la tolleranza e l’ascolto: del tipo noi abbiamo ragione perché siamo di sinistra, ma ascoltiamo anche chi ha torto.
      Poi concludi il tuo intervento con arroganza e frustrazione sempre in stile Ds: questa tua ultima risposta è degna di essere affiancata ai migliori interventi di persone come D’Alema e di Anna Finocchiaro.
      In ogni caso ti ringrazio perché anche in queste condizioni il confronto è stato stimolante tanto che mi hai ispirato la scrittura di un prossimo post che ti dedicherò…

      • … ad esempio, che mi piace il gnocco nel caffelatte?

        (sia chiaro che questo commento non è per fare ulteriore fiorire questo rispondere alla cri prendendo ad esempio me, che francamente non mi pare di grande utilità… tra l’altro a me non hai risposto, ma fa lo stesso. Si vede che la provocazione “stile ds” (e questo mi pare proprio farla fuori dal vaso) comunque è più stimolante)

        Attendo i futuri sviluppi con spirito liberal-social-democratico ma anche un po’ vetero-comunista.

  10. Ciao Claudia. Sto rispondendo a rate perché è un periodo un po’ pieno. Ti ringrazio per l’ironia è di quelle che mi spiazzano perché sono leggere, incisive e divertenti e anche se fa male non posso fare a meno di amarle.
    Ho dovuto rispondere così alla tua amica e un po’ mi dispiace, ma quando il confronto va su quei toni e si inalbera in quel modo è anche necessario darci un taglio. Poi i riferimenti ai Ds mi sembravano lampanti, magari mi sbaglio e sono disposto a ricredermi. Del resto capisco il tuo prendere le sue difese e lo accetto.
    Dici delle cose che condivido riguardo alle lauree sonanti, allo sfruttamento e alla cassa integrazione. E sono anche d’accordo sul fatto che sulle macro-idee si possa essere in disaccordo, ma la prima cosa è intendersi su cosa si sta parlando: con te si riesce anche se siamo su posizioni diverse, ma con la tua amica no ed è questo che critico. Poi sono convinto che siamo in disaccordo su poche cose, ma per come si è sviluppata la discussione sono emerse più le differenze che le uguaglianze. Sulla chiave dialogica sono assolutamente d’accordo e nell’ultima risposta che ti ho dato mi pare di avertelo dimostrato.
    Stessa cosa vale per il Bus, che è una bella metafora. Questo blog mi sembra che ne sia un esempio nella sua struttura e nelle sue idee di base. Già dal titolo “Articoli per Modena e altre destinazioni” si vuole trasmettere proprio quell’idea dinamica di cui scrivi tu.
    Credo di averti risposto, se ho mancato in qualche cosa (il che può essere benissimo) rimango a disposizione. Aspetto poi il tuo articolo sulla paura dell’infelicità.

  11. Il problema che emerge dall’articolo è quello ormai conosciuto del confronto generazionale. Chi viene prima è sempre migliore e chi viene dopo ha solo da imparare. Io credo che bisognerebbe pensare a cosa vuol dire essere giovani oggi.
    Abbiamo tante persone scarsamente formate, che non hanno alcun senso pratico (o molto limitato), che magari sono stati in mezza Europa, ma poi non sanno compilarsi un bollettino in posta… Il problema è il sistema educazionale, che ha preferito la sanità mentale delle persone sui contenuti, intesi come atteggiamenti di comprensione e iper-attenzione allo sviluppo psichico della pesona al fine da non creare problemi…
    A parte questo credo che oggi ci sia una crisi del sistema valoriale, a fronte di un mondo che propaganda solo immagini di successo facile, di soldi e ricchezze istantanee.
    Il lavoro, l’impegno sociale, la famiglia vengono viste come zavorre o problemi.
    Senza i dovuti sacrifici, la tensione al miglioramento e alla continua formazione e senza una attenzione a ciò che ci circonda la generazione degli anni ’80 cadrà nel dimenticatoio, e si penserà che siamo un branco di individualisti che non hanno voluto rinunciare a parte della loro vita per donarne un pò agli altri.
    Forse come dice il mio capo “Era più facile avere vent’anni ai miei tempi che ai tuoi” e credo che non posso dargli torto…

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